SCAFFALE LECCHESE/231: echi della Scapigliatura in quel di Lecco, chiacchierando con Bignami
La data è quella del 25 novembre: si celebrano i duecento anni della nascita di Antonio Ghislanzoni, scrittore e giornalista, poeta e quindi “matto”, secondo l’accezione dei lecchesi. S’è già scritto in questa rubrica che si attende ancora un biografo che ne racconti esaurientemente vita e attività. E si è pure detto che meriterebbe una degna ricostruzione anche la stagione lecchese della Scapigliatura favorita proprio da Ghislanzoni e che fece di Maggianico un cenacolo d’artisti.
Il libretto di Ettore Latronico non è una ricostruzione storica vera e propria. L’autore spiega in una nota di aver voluto riportare in quelle pagine la sintesi di una conversazione con Vespasiano Bignami, «l’unico superstite della comitiva di “Scapigliati” [che] ha soddisfatto il mio desiderio di approfondire e di completare la cronaca dell’epoca. Scopo di questa mia nota è dunque quello di far partecipare il lettore alla squisita conversazione del Bignami».
Ad arricchire i ricordi del pittore, Latronico ricorre a quanto lasciato scritto qui e là dallo stesso Ghislanzoni «cui spetta il merito di avere attirato nel territorio di Lecco, in varie epoche, una vera teoria di musicisti». Spiegava Ghislanzoni che «venivano per ragioni di libretto» e cioè il libretto d’opera (il poeta lecchese ne redasse un centinaio, il più celebre l’Aida per Giuseppe Verdi) «ma una volta approdati, subivano il fascino del luogo». O più prosaicamente di certi “squisiti agoni” e di certe “grandiose trote”, come nel caso di Errico Petrella che musicò i “Promessi sposi” su libretto proprio di Ghislanzoni. Del resto, Ghislanzoni «si trovava all’Albergo del Davide” come a casa sua – annota Latronico -. In origine, infatti, il nocciolo di quello che poi fu ed è l’Albergo Davide, era stata la sua casa paterna».
Noi la facciamo breve. Nel Settecento la famiglia Ghislanzoni si divise in due tronconi. Un primo si mantenne nel Palazzo oggi di proprietà Invernizzi che si affaccia sull’attuale via Martelli; al secondo andarono terreni e una casa poco distante (ora via Pergolesi) che diventerà appunto l’Albergo Davide. Fu questa seconda casa che per eredità arrivò a Giovan Battista Ghislanzoni, il padre di Antonio: «Curiosamente – scrive D’Alessio – Antonio dichiarò più volte di essere nativo di Barco tanto che gli abitanti murarono sull’Albergo Davide una lapide a ricordo del mai avvenuto evento. Il diretto interessato commentò ovviamente con il suo consueto senso umoristico: “Ma sicuro! Anche il mio lungo nome, non badando all’eccedenza della spesa, han voluto i buoni abitatori di Barco affiggere alla casa dove io nacqui e dove morirono i miei padri».
In realtà, Antonio nacque nella casa arrivata alla famiglia per via materna nell’attuale via Roma nel centro cittadino di Lecco, come altra lapide ricorda. Di fatto, morto il padre, la casa di Barco passò ad Antonio che nel 1865 la cedette a Giuseppe Invernizzi detto Davide: «Dovetti venderla – spiegò il poeta – per pagare il tipografo che mi stampava la “Rivista Minima” all’epoca in cui certi Rabagas mi accusavano di mungere ai fondi segreti». D’Alessio spiega come «la cessione non avvenne però direttamente tra Antonio e “Davide”. Nel luglio del 1865 Ghislanzoni aveva fatto vendita alla madre Teresa della casa. (…) per la somma di tremila lire. Si trattava di fatto di un prestito concesso da Teresa al figlio, il quale faceva probabilmente conto di poter riacquistare da lei il caseggiato. (…) Alla fine, d’accordo con la madre, fu deciso di venderlo al “Davide”. (…) Nel febbraio 1868 Teresa fece così formale cessione a “Davide” e al fratello Mosè Invernizzi della grande dimora di Barco. (…) Gli Invernizzi adeguarono la casa al nuovo uso di albergo. (…) Antonio continuò a frequentare Barco, accarezzando sempre l’idea di avere una propria casa» ma senza mai coronare il sogno: quando ne ebbe le possibilità, scelse infatti il ritiro di Caprino.»
«Circa il 1875 – scrive Latronico - mentre a Milano si esprimeva e si affermava, attraverso cervelli bizzarri e robusti, quel movimento al quale parteciparono tutte le arti sotto il comune, simbolico, denominatore di “Scapigliatura Lombarda”, poco più su, ai lembi delle Prealpi, un villaggio ascoso al mondo, tra il verde di boschi e di prati, s’incamminava a grandi passi verso la più schietta notorietà artistica. (…) Appunto verso il 1875, mentre nella Galleria milanese, torreggia, tra una schiera di eguali e minori “Scapigliati”, la classica figura di Giuseppe Rovani (…) Barco ospita nel suo amplesso agreste, musicisti come Ponchielli e Gomez (sic)».
Antonio Ghislanzoni, naturalmente teneva banco: «”Causeur” colorito, scoppiettante, intelligente, Ghislanzoni finiva sempre con l’accentrare, intorno alla sua conversazione, tutti i frequentatori dell’albergo. Eran frizzatine saporite a presenti ed assenti, eran chiose sugli avvenimenti politici del tempo, ed erano, sovente, serie discussioni critiche sulla poesia, la musica, la pittura. La leggerissima balbuzie che talvolta gli spezzava il discorso, suggeriva risorse ed effetti inattesi sulla sua verve».
«Ma la personalità di Ghislanzoni – continua Latronico -, ancorché inavvertitamente accentratrice (…) non sarebbe forse bastata da sola a fermare quei grandi, se fosse mancato il concorso di un rusticano genius loci, di un uomo che, in ruvida scorza, chiudeva un ingegno superiore e un’intelligenza mirabile. Era, questi, Giuseppe Invernizzi detto il Davide. (…) Avveniva che il Davide, oltre che per la sua sapienza cuciniera e le sue paterne attenzioni, impiegasse per gli artisti anche il blocco delle sue rimanenti attività. Egli fu per l’uno o per l’altro dei “suoi” artisti, a volta a volta, capomastro e consigliere edile, sensale, vetturale e persino suonatore di tromba».
Capitò, infatti, che un giorno il Davide prese il posto del facchino un po’ beone soprannominato Metternich, per andare alla stazione ferroviaria di Calolzio ad accogliere proprio il pittore Bignami e accompagnarlo personalmente all’albergo di Barco, solennizzandone l’arrivo con il suono del corno.
Vi è poi l’episodio dell’affresco, in parte ancora visibile sulla facciata dell’edificio che ospitava l’albergo. Coinvolti ancora Bignami a un altro pittore, Roberto Fontana a cui si deve anche un ritratto di Giuseppe Invernizzi alias Davide che non siamo riusciti a sapere dove oggi si trovi.
Bignami e Fontana, nel 1876, vollero affrescare la facciata interna dell’albergo: «Oggi possiamo dirlo: quell’a fresco fu in realtà un “a secco”. Il muro non fu curato e la pittura iniziata addirittura sul lieve spessore dell’imbiancatura. Che importava? Non si lavorava, certo, per la gloria e bisognava far presto. (…) Finito il dipinto, il Davide s’irrigidì nella sua solenne funzione di mecenate. Lo coprì misteriosamente, e fissò un giorno e un sontuoso programma per l’inaugurazione solenne. (…) Ed eccoci al gran giorno. Gente era venuta persino da Milano; e c’era Ponchielli, e c’era Ghislanzoni e c’erano tutti i villeggianti della zona, trascinati anch’essi da quella ventata di buon umore goliardico e bohémien. Fra l’attenzione del pubblico cadde il velo che celava il dipinto: apparve una squisita figura di donna, di fattura classicheggiante, erto nel pugno il rustico tirso di uso nelle feste campestri del luogo: la figurazione dell’Allegria opera del Fontana. Più in basso, una deliziosa figura di bimbo, paffuto e ricciutello, a cavalcioni su un muricciolo, sembrava cavalcare a briglia sciolta alla conquista di un piatto di polenta, sul quale pigolava con profumato spasimo una ghiotta teoria di uccelli: opera, quest’ultima, dettata dal più… consistente realismo di Bignami». La festa proseguì con una sorta di granguignolesca rappresentazione sui critici malvolenti («Ah, poveri e vilipesi critici, gente di cui non si sa, ieri come oggi, chieder altro che la pelle!») per culminare con l’incoronazione di re Davide, il quale però si vide «repentinamente straniarsi dalla bisogna, trasalire, volgere intorno lo sguardo allarmato, afferrare con ampie nasate un eloquente, funesto odore, volgersi desolatamente verso i fornelli, poi lanciare in aria le corone glorificatrici e correre così, coronato e solenne, verso la cucina, urlando, con favella degna di un re: “O Dio! Me brüsa ‘l rost!...”».
Un ruolo non secondario, il Davide l’ebbe anche nella decisione di Amilcare Ponchielli di costruirsi una villa a Maggianico. Ponchielli era un assiduo frequentatore dell’oste maggianichese dal quale «aveva notato un curiosissimo tipo di organista che – a sera – giungeva all’albergo, con mille inchini, “per fare un po’ di musica ai signori”. Una sera il maestro vi capitò che l’organista non era giunto ancora. Allora egli entrò atteggiando il volto ad una untuosa umiltà, si profuse, come l’assente organista, in inchini, sedette al cembalo. Mai dominatore di armonie poté vantare più integrali stonature». Il pubblico andò in visibilio e furono applausi scrocianti. Ponchielli dopo si dileguò e per l’intera serata nessuno lo vide più. «Giunse bensì l’autentico organista: ma agli occhi del pubblico fu lui – meschino! -che apparve come la mal riuscita parodia di sè stesso
Per Ponchielli, «il Davide aveva cure particolari – leggiamo – Il suo sogno di primo cittadino di Barco e di sviscerato ammiratore del maestro, era quello di poter assicurare al suo paesino la definitiva e stabile permanenza di Ponchielli. Ma che cosa ve lo avrebbe trattenuto meglio di una casa propria, una casetta tutta cinta di verde, ove l’artista avesse potuto trovare il più valido alimento del proprio estro? Prima che di pietra e calce, una “villa Ponchielli” sorse, dunque, plasmata di devozione e di amore, nella mente del Davide. (…) Ma perché la villa sorgesse, bisognava anzitutto convincerne Ponchielli. Davide impegno questa battaglia “pro domo aliena” e ne uscì vittorioso». Nell’anno 1880 sorse dunque la villa, oggi condannata al degrado dall’incuria di troppe amministrazioni comunali. E «dopo la costruzione della villa Ponchielli, un’altra grande gioia si maturò per il Davide.
Gomez volle anch’egli una sua villa, e fece “le cose da gran signore, anzi, da gran signore brasiliano”» e, dovendo partire per qualche mese, consegnò al Davide «un bel cumulo di banconote da lire mille» affinché seguisse lo svolgimento dei lavori così da poter trovare la villa pronta al suo rientro. Sorse tra il 1880 e il 1881, ma Gomes (o Gomez) già nel 1887 la vendette per problemi finanziari.
«Si visse così ancora per alcuni anni, da “scapigliati”. Poi, ad un tratto, parve che il destino di Barco si oscurasse. (…) Nella voce di Bignami, che mi racconta l’ultima visita fatta all’oste Invernizzi, ho letto la velata malinconia dello stato d’animo che andava impossessandosi di Barco alle porte del nuovo secolo; senso di vuoto e di distanza che si distendeva e si approfondiva intorno alle persone ed alle cose che una ventata di gaio godimento artistico aveva accomunato per circa un decennio»
E così oggi, e cioè nel 1926 in cui scriveva Latronico, «Barco è rientrato nella vita mediocre di tutti gli altri paesi che gli fanno da corona». Però, allora, si poteva ancora scrivere: «E’ ancora stupendamente bello, con tutte le sue casette intersecate, cinte, avvinghiate da strisce di verde, con le sue “flebili cascatelle”, con la sua fonte salutare. (…) Quante cose il tempo distrugge e quante – distruzione peggiore! – trasforma. Mio caro amico Bignami, io non ho trovato qui nessuno dei palpiti che voi avete fermare nel vostro ricordo. Oggi si ride meno e si ride peggio, Anche qui, oggi, sotto il vostro affresco, si ride peggio e meno»
Il racconto di quella stagione è ancora affidato a un opuscoletto del 1926 che, per quanto smilzo, è l’unica fonte alla quale si è poi sempre attinto. Edito da una ormai misteriosa “Società lombarda edizioni L’Ariete” tra Lecco e Milano (ma stampato a Lecco dalla tipografia-legatoria “La Grafica”) si intitola “Echi della Scapigliatura lombarda nel territorio di Lecco”. L’autore è Ettore Latronico, uno dei quattro fratelli residenti a Maggianico e nel 1987 premiati con la benemerenza civica per meriti resistenziali, ricordati dai lecchesi soprattutto per la farmacia di Pescarenico a lungo condotta da Alberto e Vincenzo (per la cronaca, il “quarto” fratello era il pediatra Nicola).
Il libretto di Ettore Latronico non è una ricostruzione storica vera e propria. L’autore spiega in una nota di aver voluto riportare in quelle pagine la sintesi di una conversazione con Vespasiano Bignami, «l’unico superstite della comitiva di “Scapigliati” [che] ha soddisfatto il mio desiderio di approfondire e di completare la cronaca dell’epoca. Scopo di questa mia nota è dunque quello di far partecipare il lettore alla squisita conversazione del Bignami».
Vespasiano Bignami era pittore di discreto livello e protagonista della scena culturale milanese, collaborava con le riviste ghislanzoniane ed era assiduo frequentatore dell’albergo del Davide a Barco di Maggianico, punto di riferimento delle villeggiature scapigliate lecchesi. Sarebbe morto, quasi novantenne, nel 1929, quindi tre anni dopo la pubblicazione della “chiacchierata” con Latronico. Alla Galleria d’arte moderna di Milano è conservato, trai suoi dipinti, anche un “Mattino sulla vecchia strada di Maggianico” (che riproduciamo per gentile concessione della Galleria).
E’ dunque la memoria dell’ormai ottuagenario pittore milanese a rievocare episodi e atmosfere: inevitabile che prevalgano le “avventure” personali e siano magari dimenticati altri episodi magari più significativiAd arricchire i ricordi del pittore, Latronico ricorre a quanto lasciato scritto qui e là dallo stesso Ghislanzoni «cui spetta il merito di avere attirato nel territorio di Lecco, in varie epoche, una vera teoria di musicisti». Spiegava Ghislanzoni che «venivano per ragioni di libretto» e cioè il libretto d’opera (il poeta lecchese ne redasse un centinaio, il più celebre l’Aida per Giuseppe Verdi) «ma una volta approdati, subivano il fascino del luogo». O più prosaicamente di certi “squisiti agoni” e di certe “grandiose trote”, come nel caso di Errico Petrella che musicò i “Promessi sposi” su libretto proprio di Ghislanzoni. Del resto, Ghislanzoni «si trovava all’Albergo del Davide” come a casa sua – annota Latronico -. In origine, infatti, il nocciolo di quello che poi fu ed è l’Albergo Davide, era stata la sua casa paterna».
Le vicende della casa e della famiglia Ghislanzoni sono state esaurientemente ricostruite dallo storico Francesco D’Alessio in un articolo pubblicato nel secondo numero del 2017 della rivista “Archivi di Lecco” (“I Ghislanzoni di Barco. Riflessi mercantili e culturali di un bizzarro casato lecchese”).
Noi la facciamo breve. Nel Settecento la famiglia Ghislanzoni si divise in due tronconi. Un primo si mantenne nel Palazzo oggi di proprietà Invernizzi che si affaccia sull’attuale via Martelli; al secondo andarono terreni e una casa poco distante (ora via Pergolesi) che diventerà appunto l’Albergo Davide. Fu questa seconda casa che per eredità arrivò a Giovan Battista Ghislanzoni, il padre di Antonio: «Curiosamente – scrive D’Alessio – Antonio dichiarò più volte di essere nativo di Barco tanto che gli abitanti murarono sull’Albergo Davide una lapide a ricordo del mai avvenuto evento. Il diretto interessato commentò ovviamente con il suo consueto senso umoristico: “Ma sicuro! Anche il mio lungo nome, non badando all’eccedenza della spesa, han voluto i buoni abitatori di Barco affiggere alla casa dove io nacqui e dove morirono i miei padri».
In realtà, Antonio nacque nella casa arrivata alla famiglia per via materna nell’attuale via Roma nel centro cittadino di Lecco, come altra lapide ricorda. Di fatto, morto il padre, la casa di Barco passò ad Antonio che nel 1865 la cedette a Giuseppe Invernizzi detto Davide: «Dovetti venderla – spiegò il poeta – per pagare il tipografo che mi stampava la “Rivista Minima” all’epoca in cui certi Rabagas mi accusavano di mungere ai fondi segreti». D’Alessio spiega come «la cessione non avvenne però direttamente tra Antonio e “Davide”. Nel luglio del 1865 Ghislanzoni aveva fatto vendita alla madre Teresa della casa. (…) per la somma di tremila lire. Si trattava di fatto di un prestito concesso da Teresa al figlio, il quale faceva probabilmente conto di poter riacquistare da lei il caseggiato. (…) Alla fine, d’accordo con la madre, fu deciso di venderlo al “Davide”. (…) Nel febbraio 1868 Teresa fece così formale cessione a “Davide” e al fratello Mosè Invernizzi della grande dimora di Barco. (…) Gli Invernizzi adeguarono la casa al nuovo uso di albergo. (…) Antonio continuò a frequentare Barco, accarezzando sempre l’idea di avere una propria casa» ma senza mai coronare il sogno: quando ne ebbe le possibilità, scelse infatti il ritiro di Caprino.»
Quella della scapigliatura a Maggianico fu una stagione breve, pochi anni, ma particolarmente vivaci, tanto appunto da lasciare ai posteri un ricordo quasi epico.
«Circa il 1875 – scrive Latronico - mentre a Milano si esprimeva e si affermava, attraverso cervelli bizzarri e robusti, quel movimento al quale parteciparono tutte le arti sotto il comune, simbolico, denominatore di “Scapigliatura Lombarda”, poco più su, ai lembi delle Prealpi, un villaggio ascoso al mondo, tra il verde di boschi e di prati, s’incamminava a grandi passi verso la più schietta notorietà artistica. (…) Appunto verso il 1875, mentre nella Galleria milanese, torreggia, tra una schiera di eguali e minori “Scapigliati”, la classica figura di Giuseppe Rovani (…) Barco ospita nel suo amplesso agreste, musicisti come Ponchielli e Gomez (sic)».
Antonio Ghislanzoni, naturalmente teneva banco: «”Causeur” colorito, scoppiettante, intelligente, Ghislanzoni finiva sempre con l’accentrare, intorno alla sua conversazione, tutti i frequentatori dell’albergo. Eran frizzatine saporite a presenti ed assenti, eran chiose sugli avvenimenti politici del tempo, ed erano, sovente, serie discussioni critiche sulla poesia, la musica, la pittura. La leggerissima balbuzie che talvolta gli spezzava il discorso, suggeriva risorse ed effetti inattesi sulla sua verve».
«Ma la personalità di Ghislanzoni – continua Latronico -, ancorché inavvertitamente accentratrice (…) non sarebbe forse bastata da sola a fermare quei grandi, se fosse mancato il concorso di un rusticano genius loci, di un uomo che, in ruvida scorza, chiudeva un ingegno superiore e un’intelligenza mirabile. Era, questi, Giuseppe Invernizzi detto il Davide. (…) Avveniva che il Davide, oltre che per la sua sapienza cuciniera e le sue paterne attenzioni, impiegasse per gli artisti anche il blocco delle sue rimanenti attività. Egli fu per l’uno o per l’altro dei “suoi” artisti, a volta a volta, capomastro e consigliere edile, sensale, vetturale e persino suonatore di tromba».
Capitò, infatti, che un giorno il Davide prese il posto del facchino un po’ beone soprannominato Metternich, per andare alla stazione ferroviaria di Calolzio ad accogliere proprio il pittore Bignami e accompagnarlo personalmente all’albergo di Barco, solennizzandone l’arrivo con il suono del corno.
Vi è poi l’episodio dell’affresco, in parte ancora visibile sulla facciata dell’edificio che ospitava l’albergo. Coinvolti ancora Bignami a un altro pittore, Roberto Fontana a cui si deve anche un ritratto di Giuseppe Invernizzi alias Davide che non siamo riusciti a sapere dove oggi si trovi.
Bignami e Fontana, nel 1876, vollero affrescare la facciata interna dell’albergo: «Oggi possiamo dirlo: quell’a fresco fu in realtà un “a secco”. Il muro non fu curato e la pittura iniziata addirittura sul lieve spessore dell’imbiancatura. Che importava? Non si lavorava, certo, per la gloria e bisognava far presto. (…) Finito il dipinto, il Davide s’irrigidì nella sua solenne funzione di mecenate. Lo coprì misteriosamente, e fissò un giorno e un sontuoso programma per l’inaugurazione solenne. (…) Ed eccoci al gran giorno. Gente era venuta persino da Milano; e c’era Ponchielli, e c’era Ghislanzoni e c’erano tutti i villeggianti della zona, trascinati anch’essi da quella ventata di buon umore goliardico e bohémien. Fra l’attenzione del pubblico cadde il velo che celava il dipinto: apparve una squisita figura di donna, di fattura classicheggiante, erto nel pugno il rustico tirso di uso nelle feste campestri del luogo: la figurazione dell’Allegria opera del Fontana. Più in basso, una deliziosa figura di bimbo, paffuto e ricciutello, a cavalcioni su un muricciolo, sembrava cavalcare a briglia sciolta alla conquista di un piatto di polenta, sul quale pigolava con profumato spasimo una ghiotta teoria di uccelli: opera, quest’ultima, dettata dal più… consistente realismo di Bignami». La festa proseguì con una sorta di granguignolesca rappresentazione sui critici malvolenti («Ah, poveri e vilipesi critici, gente di cui non si sa, ieri come oggi, chieder altro che la pelle!») per culminare con l’incoronazione di re Davide, il quale però si vide «repentinamente straniarsi dalla bisogna, trasalire, volgere intorno lo sguardo allarmato, afferrare con ampie nasate un eloquente, funesto odore, volgersi desolatamente verso i fornelli, poi lanciare in aria le corone glorificatrici e correre così, coronato e solenne, verso la cucina, urlando, con favella degna di un re: “O Dio! Me brüsa ‘l rost!...”».
Un ruolo non secondario, il Davide l’ebbe anche nella decisione di Amilcare Ponchielli di costruirsi una villa a Maggianico. Ponchielli era un assiduo frequentatore dell’oste maggianichese dal quale «aveva notato un curiosissimo tipo di organista che – a sera – giungeva all’albergo, con mille inchini, “per fare un po’ di musica ai signori”. Una sera il maestro vi capitò che l’organista non era giunto ancora. Allora egli entrò atteggiando il volto ad una untuosa umiltà, si profuse, come l’assente organista, in inchini, sedette al cembalo. Mai dominatore di armonie poté vantare più integrali stonature». Il pubblico andò in visibilio e furono applausi scrocianti. Ponchielli dopo si dileguò e per l’intera serata nessuno lo vide più. «Giunse bensì l’autentico organista: ma agli occhi del pubblico fu lui – meschino! -che apparve come la mal riuscita parodia di sè stesso
Per Ponchielli, «il Davide aveva cure particolari – leggiamo – Il suo sogno di primo cittadino di Barco e di sviscerato ammiratore del maestro, era quello di poter assicurare al suo paesino la definitiva e stabile permanenza di Ponchielli. Ma che cosa ve lo avrebbe trattenuto meglio di una casa propria, una casetta tutta cinta di verde, ove l’artista avesse potuto trovare il più valido alimento del proprio estro? Prima che di pietra e calce, una “villa Ponchielli” sorse, dunque, plasmata di devozione e di amore, nella mente del Davide. (…) Ma perché la villa sorgesse, bisognava anzitutto convincerne Ponchielli. Davide impegno questa battaglia “pro domo aliena” e ne uscì vittorioso». Nell’anno 1880 sorse dunque la villa, oggi condannata al degrado dall’incuria di troppe amministrazioni comunali. E «dopo la costruzione della villa Ponchielli, un’altra grande gioia si maturò per il Davide.
Gomez volle anch’egli una sua villa, e fece “le cose da gran signore, anzi, da gran signore brasiliano”» e, dovendo partire per qualche mese, consegnò al Davide «un bel cumulo di banconote da lire mille» affinché seguisse lo svolgimento dei lavori così da poter trovare la villa pronta al suo rientro. Sorse tra il 1880 e il 1881, ma Gomes (o Gomez) già nel 1887 la vendette per problemi finanziari.
«Si visse così ancora per alcuni anni, da “scapigliati”. Poi, ad un tratto, parve che il destino di Barco si oscurasse. (…) Nella voce di Bignami, che mi racconta l’ultima visita fatta all’oste Invernizzi, ho letto la velata malinconia dello stato d’animo che andava impossessandosi di Barco alle porte del nuovo secolo; senso di vuoto e di distanza che si distendeva e si approfondiva intorno alle persone ed alle cose che una ventata di gaio godimento artistico aveva accomunato per circa un decennio»
E così oggi, e cioè nel 1926 in cui scriveva Latronico, «Barco è rientrato nella vita mediocre di tutti gli altri paesi che gli fanno da corona». Però, allora, si poteva ancora scrivere: «E’ ancora stupendamente bello, con tutte le sue casette intersecate, cinte, avvinghiate da strisce di verde, con le sue “flebili cascatelle”, con la sua fonte salutare. (…) Quante cose il tempo distrugge e quante – distruzione peggiore! – trasforma. Mio caro amico Bignami, io non ho trovato qui nessuno dei palpiti che voi avete fermare nel vostro ricordo. Oggi si ride meno e si ride peggio, Anche qui, oggi, sotto il vostro affresco, si ride peggio e meno»
Dario Cercek