SCAFFALE LECCHESE/213: Arrigoni e le sue 'Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe'
Ingegnere e architetto è ricordato soprattutto per le sue ricerche storiche e in particolare per un’opera pubblicata tra il 1840 e il 1847 – le “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe” - che appunto lo consacrò quale storiografo principe della valle. Atteso che, fino ad allora, nessuno, come scrisse egli stesso nella prefazione, «occupossi per lo passato di una sì piccola porzione dell’Italia forse perché credette di non poter essa fornire materiali di qualche importanza». Nei decenni a seguire e ancora oggi, nonostante alcune informazioni siano state naturalmente “aggiornate”, i compilatori di storie locali hanno continuato e continuano ad attingere a quelle pagine.
Per la Valsassina era un momento di passaggio complesso. A metà Ottocento le miniere entravano in crisi e si cominciava a pensare al turismo, soprattutto dopo che nel 1847 si erano “scoperte” le fonti di Tartavalle dei cui meriti lo stesso Arrigoni fu tra i divulgatori. Ricorda Redaelli: se è giusto che Antonio Fondra, nel 1839 proprietario del terreno, sia indicato come lo scopritore della fonte «è peraltro doveroso aggiungere di fiano al suo nome quello di Giuseppe Arrigoni che continuamente vigilava su quanto potesse dare lustro o vantaggio alla sua valle».
Intanto, indagava la storia del suo territorio e ne scriveva. Con il linguaggio un po’ retorico tipico del primo Novecento lo ricorda l’Orlandi: «Alla Valle dei padri aveva eretto con lungo studio un altare, sacerdote egli medesimo del nuovo culto: ai facili trionfi della città egli antepose pertanto l'aspra lotta contro il retaggio dell'ignoranza e della miseria. Ed era grande come il mare la contrizione di nostra gente. (…) Ecco l'Arrigoni: egli mirò a scuotere i valligiani dalla apatia, toccandoli nell'amor proprio, che fu e sarà sempre la corda più sensibile fra gli umani. (…) Scovò l'Arrigoni tesori inaspettati, sfatò leggende che non avevano fondamento, concatenò genialmente le notizie frammentare, surrogando con sapienti induzioni a deficienza dei documenti, riempiendo con felice intuito lacune che avrebbero scoraggiato una tempra men salda; e trasse effetti singolari dai pochi mezzi posti a sua disposizione; ed animò la fredda materia con lo spiracolo di vita che è l’impulso d'amore. (…) Lecco, Bellano e la riviera non hanno ancor avuto e ancor attendono il loro storiografo: l'Arrigoni intanto è signore dei monti e del lago».
L’idea di una Storia della Valsassina prese forma già nella seconda metà degli anni Trenta quando ancora il suo autore dimorava a Milano. «Con cura assidua – scrive sempre il Magni - frugando nelle cronache farraginose, nelle storie antiche e moderne, negli archivi, nelle case, consultando tutti gli uomini dell'epoca che potessero dargli notizie con un lavori meraviglioso per intelligenza e attività, compilò le sue “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe dalla più remota età fino all’anno 1844”».Per finanziare la pubblicazione dell’opera, Arrigoni promosse una campagna di raccolta fondi, una sorta di prevendita: «I luoghi dove fu più vivo l'interessamento alla pubblicazione oltre Milano, dove troviamo fra gli associati il principe Guglelmo Carlo della Torre-Taxis Valsassina, il conte di Gaisruck, il Balzarei, Cesare ed Ignazio Cantù, furono Bellano, Introbio e Lecco».
L’opera come detto uscì a fascicoli dall’editore milanese Pirola tra il 1840 e il 1847 (ne circolano oggi anche un paio di edizioni anastatiche).
Naturalmente, l’impianto storico è quello ottocentesco e solo gli addetti ai lavori possono dirci quanto di quella mole di informazioni sia ancora valido. E’ indubbio però che la ricostruzione della storia valsassinese fin dall’antichità effettuata dall’Arrigoni è certamente monumentale rispetto all’epoca ma ancora oggi ci sorprende. A noi lettori comuni, taluni passi possono apparire un po’ pedanti e noiosi, ma molte pagine si leggono ancora con emozione. Come i capitoli dedicati alla calata dei lanzichenecchi e al diffondersi della peste: «Il male temuto si verificò. I Lanzichenecchi lungo il cammino percorso avevano diffuso quel contagio, che propagatosi grandemente negli uomini estenuati dalla miseria, dalla fame, dai patimenti d’animo e di corpo, produsse la più fiera mortalità che mai la storia rammenti. (…) Più crebbe nell’estate ed universale allora divenne lo spavento e l’orrore. (…) Processioni d’uomini scalzi, di donne scarmigliate, di fanciulli piangenti e digiuni si stipavano nelle chiese a pregare, a placar la collera di Dio. Miseri! Avvedutisi che la corruzione dell’aria e il contatto dei corpi più propagava il malore, fuggivansi a vicenda, il marito abbandonando la moglie ed i figli, i figli abbandonando i genitori. Quale sui monti e nelle grotte, quali nei boschi e nelle capanne, lungi dal consorzio degli uomini e dei suoi si nascondeva». E naturalmente gli untori: «Era superstizione che la malizia umana giungesse a propagar il contagio con unguenti pestilenziali e venefici fabbricati con arte diabolica» e Arrigoni ci informa che «martiri di siffatta superstizione e dell’ignoranza de’ giudici furono anche alcuni valsassinesi» come «un Francesco Manzoni detto il Bonazzo abitante al Ponte di Cremeno, Maria Elisabetta sua figlia, Francesco Bagarone, Bernardo Boccaretto….».
Del resto «contribuivano a rendere infelice quell’età le superstizioni religiose. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovranaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e altri animali, menassero danze col demonio, calpestassero l’ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l’aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità, furon messi alla tortura ed arsi al rogo».
Arrigoni ci racconta dettagliatamente anche la frana di Gero del 1762: «Era il 15 novembre verso mezzodì, il cielo sereno e tranquillo, quando ad un tratto cento e quindici individui vi ebber morte e tomba ad un tempo».
Leggendo le “Notizie”, inoltre, scopriamo come il tema di una strada come si deve per la Valsassina sia stato pressoché costante
Se ne parlava già nel Seicento, all’epoca della costruzione del forte di Fuentes, quando si ipotizzò un collegamento tra Colico e Lecco passando appunto per Bellano, Portone e la Valsassina. La quale Valsassina «che ben prevedeva che in quei tempi la strada avrebbe seco recato alloggi militari, passaggi di truppe e saccheggi, supplicò il Governo a voler abbandonare un tal progetto. O fosse per esaudir le preghiere della valle, o fosse per mancanza di denaro o per la spilorceria del Governo, come par più probabile, la strada infatti non si fece».
E oltre due secoli dopo, quando venne tracciata dagli austriaci la strada per lo Stelvio «furon messi in campo varj progetti, se cioè deviar a Tirano e pei Zapelli di Aprica calar in valle dell’Olio ed indi a Milano, o se da Morbegno per la Ca’ di S. Marco entrare in valle Averara, o se costeggiare il Lario; e, poiché fu preferita la riviera orientale del lago stesso, se penetrar da Bellano nella Valsassina (…) o se da ultimo seguir la riviera stessa». Che sarebbe stato tema di dibattito anche nel Novecento quando poi vennero realizzate le gallerie lungo la costiera: vi fu infatti chi suggerì l’ipotesi di salire in Valsassina e traforare il Legnone.
Si parla di Giuseppe Arrigoni, introbiese nato nel 1811 e morto nel 1867. Ma se le sue carte e i suoi libri sono state «fonti straordinarie per la storia della sua valle e del territorio» come scrive Gianfranco Scotti nel Dizionario storico di Lecco, sarebbe riduttivo ricordarlo solo sotto questo punto di vista. Arrigoni, infatti, fu un patriota risorgimentale costretto anche all’esilio svizzero e fu il primo sindaco di Introbio dell’Italia unita, dal 1861 fino alla morte. Non senza qualche amarezza, stando alle parole di Andrea Orlandi (1869-1945), il maestro di Pasturo che di Arrigoni è ritenuto l’erede. Scriveva infatti l’Orlandi: «E' stato ripetuto che l'Arrigoni, per soverchia parzialità del villaggio nativo, talvolta misconoscesse il tornaconto generale della Valsassina. Questo non è luogo da tali discussioni; ma è innegabile che della preferenza, se ci fu la preferenza, ebbe castigo nell'opinione pubblica del paese beneficiato, resosi a lui stranamente ostile perché ne curava lo sviluppo».
Le considerazioni di Orlandi sono contenute in un volume pubblicato nel 1916 dal Comitato valsassinese costituito proprio per ricordare l’Arrigoni. Ne facevano parte, tra gli altri, Fermo Magni (del quale abbiamo parlato qui a proposito della sua Guida illustrata della Valsassina) e il deputato lecchese Mario Cermenati. Il quale ricordava come, nel 1907, in occasione della posa di un medaglione in memoria di Tranquillo Baruffaldi, garibaldino valsassinese che partecipò alla spedizione dei Mille, «tornai alla carica e combinai con l'amico carissimo prof. Fermo Magni sindaco di Introbio, di cominciare l'opera per degnamente onorare e commemorare l'Arrigoni: ciò che il Magni, spirito eletto, innamorato della sua valle natia, accettò di fare con entusiasmo, ponendosi tosto al lavoro, e trionfando sopra gli indifferenti e gli oppositori».
Così nel 1913, all’esterno del municipio introbiese di allora, venne posata una lapide e tre anni dopo venne appunto pubblicato il volume “In memorie di Giuseppe Arrigoni storico della Valsassina” stampato dalla Tipografia Editrice Nazionale di Roma (certamente per i contatti diretti del parlamentare lecchese). Oltre che di Cermenati, Magni e Orlandi, il volumetto comprende gli interventi di Rodolfo Pezzati (maestro a Taceno), Giuseppe Redaelli (medico lecchese) e di quell’Arnaldo Ruggiero che i lecchesi più anziani ancora ricordano: all’epoca era il giovane direttore del giornale cermenatiano “Il Prealpino”.Giuseppe Arrigoni nacque il 2 novembre 1811 in una famiglia non solo benestante, ma appartenente a uno dei ceppi più importanti della Valsassina. Iniziò a studiare con il parroco di Casargo per trasferirsi poi a Milano e addottorarsi in fisica e matematica con il titolo appunto di ingegnere e architetto all’Università di Pavia nel 1833. Visse dividendosi tra Milano e Introbio fino al 1941 quando sposò una lecchese di Olate e appunto si trasferì a Lecco. Nel 1848 – scrive Fermo Magni - «l'ardente patriottismo dell'Arrigoni che era ben conosciuto non solo in Valsassina, ma anche a Lecco, lo pose fra i cittadini più in vista e più attivi. Chiamato a far parte del Comitato di pubblica sicurezza costituitosi a Lecco nel marzo del quale era presidente G. Badoni. (…) Stese proclami e circolari pieni di energia, spiranti l'aborrimento contro lo straniero (…) Sorprendente fu in tutto questo periodo di tempo l'attività dell'Arrigoni che diede prova di una abilità meravigliosa. Ha posto in cima ai suoi pensieri la libertà d'Italia (…) contro l'impero e gli infami tedeschi sui quali invoca l'eterna maledizione di tutti i popoli, mentre afferma che gli Austriaci rimarranno – schiacciati, annientati nella gran lotta che si può dire già incominciata in Europa fra i due principii, il popolare virtuoso e l'aristocratico oppressore».
Dopo l’esilio svizzero, tornò in Italia stabilendosi definitivamente a Introbio impegnandosi come consigliere provinciale e, appunto, come sindaco: «E fu una vera provvidenza – il giudizio di Magni - per questi paesi che sarebbero rimasti trascurati e quasi tagliati fuori dal mondo senza l'opera attivissima ed oculata dell'Arrigoni. Non c'è campo dove la sua attività non si sia manifestata: uffici, strade, acque, miniere, opere pubbliche, memorie, canzoni, feste, elezioni, tutto forma oggetto di studio e di interessamento. Incurante dei propri interessi privati, consuma il suo patrimonio, sacrifica la sua professione, la sua famiglia, sollecito solo del bene pubblico».
Per la Valsassina era un momento di passaggio complesso. A metà Ottocento le miniere entravano in crisi e si cominciava a pensare al turismo, soprattutto dopo che nel 1847 si erano “scoperte” le fonti di Tartavalle dei cui meriti lo stesso Arrigoni fu tra i divulgatori. Ricorda Redaelli: se è giusto che Antonio Fondra, nel 1839 proprietario del terreno, sia indicato come lo scopritore della fonte «è peraltro doveroso aggiungere di fiano al suo nome quello di Giuseppe Arrigoni che continuamente vigilava su quanto potesse dare lustro o vantaggio alla sua valle».
Intanto, indagava la storia del suo territorio e ne scriveva. Con il linguaggio un po’ retorico tipico del primo Novecento lo ricorda l’Orlandi: «Alla Valle dei padri aveva eretto con lungo studio un altare, sacerdote egli medesimo del nuovo culto: ai facili trionfi della città egli antepose pertanto l'aspra lotta contro il retaggio dell'ignoranza e della miseria. Ed era grande come il mare la contrizione di nostra gente. (…) Ecco l'Arrigoni: egli mirò a scuotere i valligiani dalla apatia, toccandoli nell'amor proprio, che fu e sarà sempre la corda più sensibile fra gli umani. (…) Scovò l'Arrigoni tesori inaspettati, sfatò leggende che non avevano fondamento, concatenò genialmente le notizie frammentare, surrogando con sapienti induzioni a deficienza dei documenti, riempiendo con felice intuito lacune che avrebbero scoraggiato una tempra men salda; e trasse effetti singolari dai pochi mezzi posti a sua disposizione; ed animò la fredda materia con lo spiracolo di vita che è l’impulso d'amore. (…) Lecco, Bellano e la riviera non hanno ancor avuto e ancor attendono il loro storiografo: l'Arrigoni intanto è signore dei monti e del lago».
L’idea di una Storia della Valsassina prese forma già nella seconda metà degli anni Trenta quando ancora il suo autore dimorava a Milano. «Con cura assidua – scrive sempre il Magni - frugando nelle cronache farraginose, nelle storie antiche e moderne, negli archivi, nelle case, consultando tutti gli uomini dell'epoca che potessero dargli notizie con un lavori meraviglioso per intelligenza e attività, compilò le sue “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe dalla più remota età fino all’anno 1844”».Per finanziare la pubblicazione dell’opera, Arrigoni promosse una campagna di raccolta fondi, una sorta di prevendita: «I luoghi dove fu più vivo l'interessamento alla pubblicazione oltre Milano, dove troviamo fra gli associati il principe Guglelmo Carlo della Torre-Taxis Valsassina, il conte di Gaisruck, il Balzarei, Cesare ed Ignazio Cantù, furono Bellano, Introbio e Lecco».
L’opera come detto uscì a fascicoli dall’editore milanese Pirola tra il 1840 e il 1847 (ne circolano oggi anche un paio di edizioni anastatiche).
Naturalmente, l’impianto storico è quello ottocentesco e solo gli addetti ai lavori possono dirci quanto di quella mole di informazioni sia ancora valido. E’ indubbio però che la ricostruzione della storia valsassinese fin dall’antichità effettuata dall’Arrigoni è certamente monumentale rispetto all’epoca ma ancora oggi ci sorprende. A noi lettori comuni, taluni passi possono apparire un po’ pedanti e noiosi, ma molte pagine si leggono ancora con emozione. Come i capitoli dedicati alla calata dei lanzichenecchi e al diffondersi della peste: «Il male temuto si verificò. I Lanzichenecchi lungo il cammino percorso avevano diffuso quel contagio, che propagatosi grandemente negli uomini estenuati dalla miseria, dalla fame, dai patimenti d’animo e di corpo, produsse la più fiera mortalità che mai la storia rammenti. (…) Più crebbe nell’estate ed universale allora divenne lo spavento e l’orrore. (…) Processioni d’uomini scalzi, di donne scarmigliate, di fanciulli piangenti e digiuni si stipavano nelle chiese a pregare, a placar la collera di Dio. Miseri! Avvedutisi che la corruzione dell’aria e il contatto dei corpi più propagava il malore, fuggivansi a vicenda, il marito abbandonando la moglie ed i figli, i figli abbandonando i genitori. Quale sui monti e nelle grotte, quali nei boschi e nelle capanne, lungi dal consorzio degli uomini e dei suoi si nascondeva». E naturalmente gli untori: «Era superstizione che la malizia umana giungesse a propagar il contagio con unguenti pestilenziali e venefici fabbricati con arte diabolica» e Arrigoni ci informa che «martiri di siffatta superstizione e dell’ignoranza de’ giudici furono anche alcuni valsassinesi» come «un Francesco Manzoni detto il Bonazzo abitante al Ponte di Cremeno, Maria Elisabetta sua figlia, Francesco Bagarone, Bernardo Boccaretto….».
Del resto «contribuivano a rendere infelice quell’età le superstizioni religiose. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovranaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e altri animali, menassero danze col demonio, calpestassero l’ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l’aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità, furon messi alla tortura ed arsi al rogo».
Arrigoni ci racconta dettagliatamente anche la frana di Gero del 1762: «Era il 15 novembre verso mezzodì, il cielo sereno e tranquillo, quando ad un tratto cento e quindici individui vi ebber morte e tomba ad un tempo».
Leggendo le “Notizie”, inoltre, scopriamo come il tema di una strada come si deve per la Valsassina sia stato pressoché costante
Se ne parlava già nel Seicento, all’epoca della costruzione del forte di Fuentes, quando si ipotizzò un collegamento tra Colico e Lecco passando appunto per Bellano, Portone e la Valsassina. La quale Valsassina «che ben prevedeva che in quei tempi la strada avrebbe seco recato alloggi militari, passaggi di truppe e saccheggi, supplicò il Governo a voler abbandonare un tal progetto. O fosse per esaudir le preghiere della valle, o fosse per mancanza di denaro o per la spilorceria del Governo, come par più probabile, la strada infatti non si fece».
E oltre due secoli dopo, quando venne tracciata dagli austriaci la strada per lo Stelvio «furon messi in campo varj progetti, se cioè deviar a Tirano e pei Zapelli di Aprica calar in valle dell’Olio ed indi a Milano, o se da Morbegno per la Ca’ di S. Marco entrare in valle Averara, o se costeggiare il Lario; e, poiché fu preferita la riviera orientale del lago stesso, se penetrar da Bellano nella Valsassina (…) o se da ultimo seguir la riviera stessa». Che sarebbe stato tema di dibattito anche nel Novecento quando poi vennero realizzate le gallerie lungo la costiera: vi fu infatti chi suggerì l’ipotesi di salire in Valsassina e traforare il Legnone.
Negli anni seguenti alla pubblicazione delle “Notizie”, Arrigoni diede alle stampe altri “documenti inediti” sulla storia valsassinese, alcune biografie, una sorta di guida turistica (“Una corsa per la Valsassina”) e nel 1860 anche un Almanacco politico popolare che voleva essere una spiegazione del nuovo assetto costituzionale italiano «per uso del popolo di campagna» considerato che «la giornaliera frequenza che ho con il popolo mi hanno persuaso che la freddezza di alcuni e specialmente dei contadini della pianura all'attual politico movimento non è già l'affezione all'Austria, ma l'ignoranza».
Dario Cercek