SCAFFALE LECCHESE/166: le 'Bellezze' di Cermenati, tra il vulcano nostrano e le acque benefiche
Nel 1893 usciva “Lecco e dintorni. Guida illustrata e descrittiva di Lecco e territorio” della quale abbiamo già parlato e che vantava un’introduzione di Mario Cermenati dedicata alle “Bellezze naturali dei dintorni di Lecco”, un’introduzione che avrebbe anche avuto vita propria, visto che venne pure stampata in un’edizione a sé stante. Curiosamente, tra l’altro, stando alle date ufficiali, l’Introduzione “autonoma” uscì nel 1892, dunque in anticipo rispetto alla Guida.
Mario Cermenati e la sua pubblicazione
Come avveniva in molte pubblicazioni dell’epoca, il racconto non ha un ordine rigoroso, alternando informazioni scientifiche a curiosità. Ed era una maniera di far divulgazione, magari in una forma che a noi oggi appare magari un po’ ingenua. In effetti, in quell’introduzione, Cermenati tiene una vera e propria lezione con uno sguardo dai larghi orizzonti che noialtri in queste righe non possiamo certo comprendere. Ci limitiamo dunque a indugiare su qualche pagina, tanto da render l’idea dell’opera.Per esempio, a proposito di vulcani lecchesi: «Nei dintorni di Lecco non ardono vulcani. (…) Recentemente però ebbimo lo spettacolo d’un incendio vulcanico. Uno spettacolo in miniatura, se si vuole, ma abbastanza completo». Nemmeno i fuochi d’artificio al Colosseo di Roma «reggono al confronto con quanto videro i lecchesi ai primi di marzo 1878. Erasi incendiato il San Martino. L’inverno di quell’anno era stato di una straordinaria siccità. I cespugli, gli sterpi, le erbe della montagna dovevano essere secchi come paglia. Tirava un vento fortissimo da più giorni. Bastò che, per un caso qualunque, o per sbadataggine di alpigiani, o per gusto di monelli, si appiccasse il fuoco ad un boschetto, perché il monte, in un attimo, fosse tutto in fiamme. Per tre notti continue si ebbe l’illusione completa di un’eruzione vulcanica. I fianchi scoscesi del S. Martino pieni di fuoco, che illuminava sinistramente le rupi, come correnti di lava infuocata. Sulla cima un pennacchio larghissimo i fumo, perfettamente simile al caratteristico pino dei vulcani. (…) Il locale giornaletto del tempo, “Il Bollettino”, pubblicò al riguardo un articolo… scientifico. Intitolavasi: “L’incendio del Monte S. Martino, fenomeno plutonico”. Chi mai lo crederebbe? Spiegavasi l’incendio colla supposizione che nell’interno del monte, pieno di bicarbonato di calcio, fossero avvenute, causa la siccità, speciali reazioni chimiche, in forza delle quali attraverso i crepacci, dovettero sprigionarsi grandi volumi d’ossigeno che tosto s’infiammava e bruciava ogni cosa».
Si tratta, tra l’altro, del celebre incendio raccontato da Antonio Stoppani e ne dà conto lo stesso Cermenati: «Ebbe la fortuna di contemplarlo anche lo Stoppani che ne fece argomento d’una serata nell’appendice al “Bel Paese”».Si ricorderà che l’abate ebbe a scrivere come il San Martino in fiamme assomigliasse a un vulcano in eruzione. Paragone forse all’origine di quella credenza popolare resistita a lungo secondo la quale il San Martino sarebbe stato un vulcano in sonno.
Volgendo lo sguardo al lago, Cermenati ricorda come sia «celebre da un polo all’altro e che «traggono dalla lontana America i curiosi a visitarlo. Non parliamo degli europei d’ogni schiatta e d’ogni borsa. E’ un vero pellegrinaggio di devozione alla natura in uno de’ suoi templi più splendidi». E se «infinite ville ornano le sponde del ramo di Como, meno artificiale è il ramo di Lecco: proprio il nostro. E’ più serio, più semplice, non meno bello».
Corposa la parte dedicata ai fiumi: c’è l’Adda naturalmente alla quale in verità dedica poche righe ricordando ancora lo Stoppani quando questi paragonò le rapide di Paderno addirittura alle cascate del Reno a Sciaffusa. E c’è, seconda in graduatoria, la Pioverna con il suo Orrido, «una stretta fessura nel monte, alta duecento metri circa e mirabilmente lavorata ad anfratti oscuri, a volte spaventose, a baratri e spelonche orrende. E’ una bolgia dantesca, ove l’acque, rabbiose e spumeggianti, gorgogliano con fracasso indiavolato. Il Dorè, illustrando il divin poema, deve averla copiata. (…) Grazie a ponticelli, a scalette, a viuzze artificiali si può penetrare nell’abisso. Impressioni indimenticabili si ricevono là dentro».
Mentre «del Fiumelatte s’è scritto un mondo di cose, dai tempi antichi ai giorni nostri. Doveva certo colpire l’immaginazione degli osservatori. (…) Chi lo spiegò ad un modo, chi ad un altro: chi con strampalate ipotesi, chi con ragioni di qualche valore.
Ancora in Valsassina, la cascata della Troggia «è una di quelle bellezze naturali che è colpa il non andare a vedere. Un pittore rinomato, Marco Gozzi, la ritrasse col pennello; Antonio Stoppani la descrisse colla sua penna che vale il pennello migliore. Poco distante è la Grotta dei Dardani presso Cortenova, dove «un torrentello salta in un bacino tanto perfetto. (…) L’acqua, cadendo dall’alto e battendo nello stesso punto esercita una tremenda forza erosiva. (…) Ne derivano quelle che si dicono marmitte dei giganti torrenziali.»
A proposito di grotte, «rinomata» è quella di Laorca, più volte decantata: «E’ tappezzata da vaghissime incrostazioni calcaree. (…) Ma la bellezza della grotta è deturpata da una fabbrica ad uso chiesa ed ossario. Dove rimbombarono un dì i grugniti dell’orso speleo, rintronano adesso le stonature dei confratelli. Per fortuna che, perdendosi nei meati sotterra, non salgono al cielo!»
Di quella del Moncodeno scrive: «Sonvi stalagmiti, cortine e panneggiamenti, ma di ghiaccio. Per questo usasi chiamarla ghiacciaja. (…) Si entra per una stretta spaccatura nella roccia. Un vecchio tronco d’abete serve a meraviglia per assicurarvi la fune, cui è prudenza tenersi attaccati. Bisogna anche coprirsi bene, ché nel magico speco corrono per l’ossa brividi di freddo. Attenti a destra, ove si sprofonda in un buco che mena al diavolo. (…) Spettacolo mai visto! Un enorme camerone di ghiaccio scintilla vivamente alla luce delle fiaccole».
Peregrinando sulle falde del Grignone, inoltre «sulla Costa di Prada c’è un magnifico arco di trionfo scavato nella viva dolomia» che oggi noi chiamiamo “la porta di Prada”.
E poi ci sono le acque benefiche. Come l’ormai dimenticata «sorgente ferruginosa importante come medicinale» a Malgrate e naturalmente le «due altre sorgenti minerali dei nostri monti largamente utilizzate» e cioè Tartavalle e Maggianico> dove «ottimi alberghi attirano gente in entrambi i siti».
Lo scienziato lecchese passa poi a descriverci la fauna. Ci parla dell’orso che doveva ancora essere presente sui mostri monti: «Comparve più volte nel territorio valsassinese, e vari campioni furonvi uccisi. Qualcuno fu visto anche nei pressi del Grignone. Vengono dalla Valtellina, nei cui boschi prealpini hanno residenza. Da noi fanno qualche passeggiata, ma spesso capitano male. (…) Sul Legnone, nel folto dei boschi, vivono da re».
Il lupo, invece, all’epoca sembrava già un ricordo: «E’ scomparso da mezzo secolo in qua. (…) Ad Esino divoravano capre e pecore a tutta possa: un inverno fecero strage dei cani di tutto il paese». Ma ci parla anche dei «graziosi topolini» che «si trovano fin sulle cime più alte» e che «nelle capanne del Club alpino comandano a bacchetta; lor sudditi e parassiti le pulci».
E in tema di animali scomparsi, Cermenati si sofferma sull’ormai leggendario Lariosaurus «che trovansi i nei marmi di Varenna. A quest’ora ne furono scoperti quattro campioni, rispettivamente negli anni 1839, 1863, 1887 e 1891». Cermenati ci ricorda che «il più bello fra tutti è quello rinvenuto nel 1887» e che «l’originale passò al Museo di Monaco di Baviera, pagato lire mille» senza risparmiarsi una punta polemica: «Il governo italiano si rifiutò d’acquistarlo per tale prezzo, mentre spende centinaja di migliaia di lire per un cavallo!».In quanto ai marmi di Varenna sono «notissimi» e «si sa che il nero di Varenna fa seria concorrenza a quello del Belgio».
Naturalmente, Cermenati racconta molto di più miscelando appunto le proprie competenze scientifiche con ricordi personali: ne è appunto esempio l’ironica chiosa a proposito dei topi che comandano a bacchetta nei rifugi alpini. Presidente dal Cai lecchese per ben 35 anni, quei rifugi li ha frequentati assiduamente e quello dei topi sarà certamente stato uno dei problemi ai quali occorreva porre in qualche modo rimedio.
Il fascino sta anche nelle illustrazioni – presenti in entrambe le pubblicazioni – che co restituiscono paesaggi ormai perduti della nostra terra.
Dario Cercek