SCAFFALE LECCHESE/165: il fascino del ''Pizzo dei Tre Signori'' raccontato nel libro di Angelo Sala

Il nome in sé è già evocativo: Pizzo dei Tre Signori. Richiama l'antico confine tra la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano e la Valtellina grigionese. Un confine ricalcato in epoca contemporanea da quello di tre province lombarde: Bergamo, Sondrio, un tempo Como e oggi Lecco: «E per questo fin dall'antichità, è stata terra di transito e di importanti incontri, una dinamica frontiera nella quale si incontrarono e si confrontarono culture diverse».



A guidarci alla scoperta di questa montagna già alpina c'è un libro del giornalista lecchese Angelo Sala, con le fotografie di Luca Beretta e Stefano Giussani, pubblicato dall'editore missagliese Bellavite nel 2003.
E' un percorso ricco di suggestioni e che segue tracce geografiche e storiche, con lo sguardo rivolto da una parte alle caratteristiche naturali e dall'altra alle vicende umane. Andando ad abbracciare un territorio ben più vasto di quello direttamente sorvegliato dalla mole del Pizzo, un territorio legato nelle sue parti da secolari scambi commerciali, quelli a più vasto raggio e quelli più legati alla vita quotidiana delle popolazioni di montagna, testimoniati dalla fitta rete di collegamenti diventati ai nostri giorni percorsi escursionistici: siamo «al cospetto di un complesso e vasto sistema montuoso (...) con una cima dominante - il Pizzo dei Tre Signori - e una sequenza di vallate molto articolata, che presenta ambienti e paesaggi sempre diversi che spaziano dalle aspre rocce d'alta quota ai tranquilli pascoli delle malghe e agli incontaminati laghi che costellano tutta la catena. L'impressione che se ne riceve è quella di una natura integra, intaccata dall'uomo solo in minima parte, benché la zona sia stata frequentata già migliaia di anni fa. Sono state infatti trovate tracce risalenti al mesolitico e che sono da attribuire a bivacchi di cacciatori che nel corso dell'estate si spingevano fino alle alte quote in cerca di selvaggina».
Nel disegnare la mappa di questo territorio, Sala ha scelto la serie di direttrici lungo le quali nel tempo si è sviluppato il movimento delle genti, Prendendo le mosse, per esempio, dalla Colmine di San Pietro apparentemente estranea al Pizzo. Ma che storicamente è stato valico importante, oggi più che altro turistico lungo una delle ormai «due sole strade, peraltro ai confini del territorio, [che] attraversano da un versante all'altro l'area del Pizzo dei Tre Signori»; l'altra è quella che del Passo di San Marco tra Bergamasca e Valtellina. Camminando lungo un confine non solo politrico o amministrativo, ma anche geologico e geografico: «La nobiltà del Pizzo dei Tre Signori si accentua ulteriormente se si prende per buona la collocazione della cima tra quelle delle Alpi anziché delle Prealpi, accettando l'ideale confine tra le due catene montuose alla sella di Foppabona».

Pagina dopo pagina prende forma un vero e proprio mondo con tanta storia e tante storie da raccontare. Un mondo rimasto a lungo apparentemente immutato e immutabile almeno se paragonato alla grande trasformazione novecentesca con il turismo di massa che qualche problema ha creato e qualche danno irreparabile ha pure arrecato.
Seguendo l'autore dalla Colmine arriviamo ad Artavaggio e ai Piani di Bobbio che cent'anni fa erano pascoli per diventare stazioni sciistiche nella seconda metà del Novecento. Con le funivie, gli ski-lift, un'edilizia a briglia molto sciolta.
A proposito di funivie, Sala ci ricorda anche come ne fosse in progetto una destinata quasi ad arrivare fin quasi proprio al Pizzo, collegando Introbio al Passo del Camisolo passando per la Val Biandino. Se ne parlò negli anni Cinquanta nel Novecento e si arrivò anche alla posa della prima pietra: «E' però rimasta una lodevole idea della quale non si è più sentito parlare. (...) La funivia faceva parte di un "pacchetto" di altre opere di grande portata quali ad esempio la nuova provinciale della valle che scendeva in Valtellina attraverso il traforo del Legnone, la funivia che saliva sulla vetta della Grigna, il trenino delle Grigne, e la riprendiamo qui (...) anche per sottolineare una stagione di vivacità progettuale che non si è più ripetuta».
E per la quale non sembra che Sala abbia un giudizio negativo (anzi!) concludendo con il sottolineare che dopo il tempo degli inevitabili attriti, il turismo un po' invasivo e la modernità abbiano trovato il modo di convivere con l'antica tradizione agricola alla quale pure rivolge uno sguardo appassionato, forse con qualche venatura malinconica per un mondo fatto di antichi valori in parte sgretolatisi.
Ci addentriamo poi nella Val Biandino che davvero sembra essere una finestra aperta su una civiltà che a noi pare scomparsa e che invece esiste ancora.
Non è per caso - suggerisce Sala - che incontriamo qui il personaggio «uscito dalla fantasia dello storico e giornalista valsassinese Giulio Selva, che interpreta efficacemente lo spirito con il quale operano i bergamini e gli agricoltori sui nostri monti. E' quello del Ransciga abbarbicato con il suo gregge sui pascoli della Val Biandino (...). Un personaggio che rivela tutto lo spessore umano della gente di queste montagne, che queste rocce hanno tagliato con le loro dure braccia per trasformare, se non in terra da coltivare, almeno in terra da pascolare. (...) L'uomo dei secoli e dei millenni, il Ransciga, [vive] di fatica e di avventura su questi pendii» i quali «raccontano la grande storia di uomini che non hanno mai camminato in piano, ma che su questa terra sono saliti e scesi scalando costoni e crinali».

Il Ransciga, dunque: «Un pastore fatto un po' a modo suo. Secondo lui gli unici esseri viventi con i quali ci si poteva intendere erano le capre: tutti gli altri, bipedi o quadrupedi che fossero, li considerava uno sbaglio del Creatore». Insomma, verrebbe di dire, un autentico discendente dell'Homo Selvadego, quello raffigurato nel XVI secolo in una casa di Sacco in Val Gerola, «considerato il primo abitatore delle Alpi, una creatura che vive solitaria e in piena libertà, una sorta di anarchico ante litteram» e che gli itinerari del libro ci portano a incontrare.
Finché un giorno, la vita del "Ransciga" incrocia il soprannaturale e finisce con Belzebù preso a schioppettate e ricacciato all'inferno attraverso una voragine che si sarebbe poi riempita d'acqua formando il lago di Sasso.
Sul lago di Sassi proietta la sua ombra proprio il Pizzo dei Tre Signori, 2.554 metri, «una montagna che è tra le più belle delle Orobie (...). Conosciuta da secoli per via delle sue miniere delle quali ancora si vedono ancora gli imbocchi e le discariche del materiale di scarto» è tra le mete più frequentate dagli escursionisti. Diremmo da oltre un secolo: «La prima notizia certa di una salita a carattere turistico escursionistico la troviamo sulle pagine de "L'Alpinista", il primo periodico mensile del Club Alpino Italiano. Correva l'anno 1875 e la sezione del CAI di Milano, organizza un'escursione ufficiale (...). E' il 28 luglio e la comitiva, composta da una quarantina di persone (ma soltanto una ventina di esse raggiungeranno la vetta) guidate dall'abate e geologo lecchese Antonio Stoppani, alle 8 del mattino guadagnò la cima passando per il lago di Sasso e la bocchetta del Varrone. Sulla cima, i milanesi si incontrarono con dieci colleghi alpinisti della sezione valtellinese del CAI, con i quali divallarono a Gerola, nella Valle del Bitto, e quindi a Morbegno».

Il libro ci offre anche alcuni ritratti di persone in qualche modo significative. A partire dal già citato Giulio Selva, che fu anche promotore di molte iniziative sportive come la Introbio-Biandino-Introbio che anticipò di anni l'epoca delle grandi sfide di corsa in montagna. Ma ci sono anche Arnaldo Sassi, a lungo presidente della Società Escursionisti Lecchesi, ritenuto lo "scopritore" dei Piani di Artavaggio, nel 1925, «con un gruppo di associati tra i quali Nino Castelli, ufficiale degli alpini combattente nella grande guerra, più volte campione di sci e canottaggio. La bella zona a pascoli, oltre ai mandriani con il bestiame all'alpeggio, non accoglieva che qualche gruppo d'escursionisti, in tempo di neve, rari sciatori». E infatti, il rifugio della Sel ad Artavaggio è intitolato proprio a Sassi e a Castelli. C'è poi Angelo Casari, detto "l'alpino del Polo": «Un uomo semplice diventato un mito tra le sue montagne. (...) Un nome che ai Piani di Bobbio sconfina nella leggenda tanto che c'è chi si reca apposta nel rifugio da lui costruito, il Sora, solo per vederne i ricordi e i cimeli raccolti dalla famiglia». Nato nel 1907, fu campione di sci, «ma entrò nella storia non tanto per le imprese sportive (...) quanto per aver fatto parte di quei "cadetti di Guascogna" - come li definì il loro capitano, Gennaro Sora - sette alpini e un artigliere di montagna (...) aggregati alle squadre che avrebbero dovuto assistere il generale Umberto Nobile nel suo grando volo con il dirigibile Italia» verso il Polo Nord nel 1928, un'impresa che finì in tragedia. A proposito di alpini, Sala ci offre anche un ritratto di Mario Cereghini, l'architetto lecchese che progettò la chiesetta dei Piani delle Betulle in una forma che ricorda proprio il cappello alpino con il campanile a fare da penna (in questo caso bianca). Attenzione anche al premanese Battista Todeschini, il cui merito «fu quello di aver fatto conoscere lo sci di fondo a Premana alla fine degli anni Trenta del Novecento». Infine la dinastia dei Baschenis di Averara, in Val Taleggio, che «per oltre duecento anni, a partire dalla metà del Quattrocento, si sono succeduti di padre in figlio, abbellendo di affreschi decine di chiese in terra bergamasca e portando il nome della loro terra fin nelle allora remote valli del Trentino. (...) Sono una ventina gli artisti che hanno lasciato traccia della loro produzione».
Dario Cercek





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