SCAFFALE LECCHESE/152: i 'primi anni di vita' del Manzoni raccontati da Stoppani
Il 22 maggio 1873 moriva Alessandro Manzoni. Aveva 88 anni. Gli onori tributatigli da Milano e dall’Italia intera furono immensi. E anche i lecchesi vollero fare la loro parte dedicandogli un monumento. O, meglio, una parte dei lecchesi. Scrive infatti Angelo Borghi in “Lecco d’una volta”: «Appena dopo la morte di Manzoni il Comune aveva pensato al monumento, bloccato però dall’ala liberale garibaldina che faceva capo all’avvocato Ernesto Pozzi. Solo lo Stoppani aveva resistito organizzando pesche di beneficenza fino a raccogliere il denaro necessario a far avanzare il troncone di piedistallo rimasto in mezzo al Largo. Si diceva che non a caso l’artista (lo scultore Francesco Confalonieri, autore di entrambe le statue, ndr) aveva ideato il Garibaldi in piedi e il Manzoni seduto».
Spigolature, le aveva definite l’autore: «Spigolare – spiegava - si dice l’andar raccogliendo in un campo mietuto le spighe sfuggite alla falce inesorabile del mietitore. Nel mio caso però ha un senso un pochino accomodatizio: poiché questo non è campo che sia già stato mietuto, e neppur vigna che altri abbia già vendemmiata: anzi nessuno ci ha mai visto, ch’io mi sappia, né un campo da mietere, né una vigna da vendemmiare, benché taluno v’abbia raggranellato a caso un grappolo o una spiga».
Come notava un curatore, più che di spigolatura si sarebbe dovuto parlare di vera e propria mietitura tanto il campo era incolto. Perché - osservava ancora lo Stoppani - sarebbe necessario che dei grandi uomini si intuisse il futuro già dall’infanzia e che pertanto qualcuno ne registrasse i passi e le azioni e ne cogliesse le parole «colla punta della penna». Ma «gli uomini grandi per lo più si scoprono tali soltanto dopo che son morti, mentre vivi erano dimenticati od anche trascinati nel fango dai contemporanei. Quando son morti, oh allora, presto presto, a interrogare i parenti, gli amici, i coetanei…». Ma come si potrà mai trovare qualcuno in grado di raccontare l’infanzia di un uomo morto a 88 anni? «Quelli che l’hanno nutrito, educato, amato bambino, son tutti morti da un pezzo. (…) Insomma chi volete che v’abbia a parlar oggi di un fanciullo nato nel 1785?»
Alla morte del Manzoni, l’abate lecchese era già una figura di riferimento negli ambienti scientifici, anche se non aveva ancora pubblicato l’opera che gli avrebbe dato l’immortalità, “Il Bel Paese” che pure aveva già sostanzialmente scritto.
«Il Manzoni – scrive Claudio Cesare Secchi nella prefazione all’edizione Bartolozzi dei “Primi anni” – dovette conoscere [lo Stoppani] nella Milano liberata dopo il ’59, secondo lo Zanella dovette anche avere amabili conversari con lui, né li accomunava soltanto l’amore della Patria e della Fede, ma nel Manzoni il rimpianto che durò sempre in lui di Lecco, sì bella e specchio di quel ramo del lago di Como, e nello Stoppani il fervido amore verso il gran borgo ormai diventato città»
Parte dalle origini, lo Stoppani: dalle origini valsassinesi della famiglia Manzoni, di «quella progenie di tirannelli» dei quali ancora si diceva che «i Cuzzi, la Pioverna e i Manzoni non intendono mica di ragioni». Motto ormai immancabile nei racconti delle guide manzoniane.
E poi, Galbiate: la culla, «proprio la cuna ove vagiva ignoto or fanno 88 anni il grand’uomo», che allora ancora si trovava a Mozzana (oggi è conservata a Villa Manzoni al Caleotto), mentre alla cascina di Costa una targa ricorda che il piccolo Alessandro vi era stato mandato a balia.
La balia «si chiamava Caterina Panzeri, che da Galbiate era passata alla frazione della Costa, sposandosi con Carlo Spreafico. Era una svelta brunetta, di piccola statura, con capelli neri, insomma una Lucia intelligente e dolce di carattere come la Lucia che conoscete; ma piacevole e burlona, tanto che la domenica intratteneva tutta la brigata raccontando le “storie”».
In collegio, prima a Merate e poi a Lugano e infine a Castellazzo de’ Barzi, Manzoni trascorse gli anni dal 1791 al 1800. Lo Stoppani ne segue gli studi, gli incontri e le frequentazioni, i professori e i compagni di scuola che saranno poi anche amici di una vita, gli slanci “rivoluzionari” per quanto non fosse «uomo d’azione» e il padre Soave che «s’indispettiva quando Alessandrino, invaso dalle idee allora irruenti, non voleva scrivere “re e imperatori e papa” colle maiuscole». E le vacanze al Caleotto, dove compagno di giochi e avventure fu a lungo il futuro architetto Giuseppe Bovara che – quando lo Stoppani scriveva - «promette di oltrepassare ancora robusto e pieno d’intelligenza i cent’anni, a cui si trova già presso avendo contato già i novantadue». In realtà, anch’egli non arrivò alla fine del 1873 e lo Stoppani, a testo del libro ormai composto, riuscì a inserire una nota già nella prima edizione: «Vani auguri pur troppo! Una vita tanto lunga quanto cara e preziosa si spense tranquillamente come il lucignolo a cui l’olio vien meno, il 2 di dicembre». L’architetto lasciava un’incredibile collezione di reperti di pregio o solo curiosi e strani, tra cui vi era anche il paretaio di caccia che la famiglia Manzoni aveva a Pescarenico, più o meno nel luogo dell’Addio Monti, e che era occasione di svago per i due giovani amici.
Lo Stoppani non fece poi in tempo a vedere l’opera compiuta: l’11 ottobre 1891, giorno dell’inaugurazione con «l’orazione del senatore Gaetano Negri – ci informa ancora Borghi – e il famoso “discorso di Lecco” tenuto dal Carducci in atmosfera anticrispina all’albergo Croce di Malta», l’abate e geologo lecchese non c’era già più, essendo deceduto il 1° gennaio di quello stesso anno.
L'inaugurazione del monumento
All’indomani della morte del Manzoni, il sacerdote e scienziato lecchese aveva testimoniato la propria venerazione nei confronti del grande scrittore pubblicando “I primi anni di Alessandro Manzoni. Spigolature di Antonio Stoppani”. Si tratta di un volumetto che oggi può forse apparire insignificante rapportato alla mole di studi accumulatisi in questi 150 anni su vita e opere del “grande milanese”. Ma fu prezioso nel salvare alcuni dettagli destinati poi ad arricchire tutte le biografie successive. Scritto a tambur battente avrebbe visto la luce nel 1874, stampato dalla milanese Tipografia Bernardoni, con l’aggiunta di alcune poesie manzoniane meno conosciute o addirittura inedite. L’opera avrebbe poi avuto numerose edizioni fino ai tempi moderni, anche se ormai è trascorso circa mezzo secolo dall’ultima ristampa. Che dovrebbe essere del 1972, l’ultima delle diverse edizioni proposte dall’editore lecchese Bartolozzi.
Come notava un curatore, più che di spigolatura si sarebbe dovuto parlare di vera e propria mietitura tanto il campo era incolto. Perché - osservava ancora lo Stoppani - sarebbe necessario che dei grandi uomini si intuisse il futuro già dall’infanzia e che pertanto qualcuno ne registrasse i passi e le azioni e ne cogliesse le parole «colla punta della penna». Ma «gli uomini grandi per lo più si scoprono tali soltanto dopo che son morti, mentre vivi erano dimenticati od anche trascinati nel fango dai contemporanei. Quando son morti, oh allora, presto presto, a interrogare i parenti, gli amici, i coetanei…». Ma come si potrà mai trovare qualcuno in grado di raccontare l’infanzia di un uomo morto a 88 anni? «Quelli che l’hanno nutrito, educato, amato bambino, son tutti morti da un pezzo. (…) Insomma chi volete che v’abbia a parlar oggi di un fanciullo nato nel 1785?»
«Eppure, vedete – concludeva lo Stoppani -, io mi son fitto in capo di far parlare i vivi, i morti, le pareti delle case, i banchi delle scuole, tanto da poter narrarvi qualche cosa del bambino e del giovinetto, dopo che tanto avete letto e udito dell’uomo, dello scrittore, del genio». Assicurando, «checché ne pensi il lettore dei fatterelli narrati in questo volume», di non avere introdotto nulla «della cui esattezza storica potessi dubitare».
«Il Manzoni – scrive Claudio Cesare Secchi nella prefazione all’edizione Bartolozzi dei “Primi anni” – dovette conoscere [lo Stoppani] nella Milano liberata dopo il ’59, secondo lo Zanella dovette anche avere amabili conversari con lui, né li accomunava soltanto l’amore della Patria e della Fede, ma nel Manzoni il rimpianto che durò sempre in lui di Lecco, sì bella e specchio di quel ramo del lago di Como, e nello Stoppani il fervido amore verso il gran borgo ormai diventato città»
Parte dalle origini, lo Stoppani: dalle origini valsassinesi della famiglia Manzoni, di «quella progenie di tirannelli» dei quali ancora si diceva che «i Cuzzi, la Pioverna e i Manzoni non intendono mica di ragioni». Motto ormai immancabile nei racconti delle guide manzoniane.
E poi, Galbiate: la culla, «proprio la cuna ove vagiva ignoto or fanno 88 anni il grand’uomo», che allora ancora si trovava a Mozzana (oggi è conservata a Villa Manzoni al Caleotto), mentre alla cascina di Costa una targa ricorda che il piccolo Alessandro vi era stato mandato a balia.
La balia «si chiamava Caterina Panzeri, che da Galbiate era passata alla frazione della Costa, sposandosi con Carlo Spreafico. Era una svelta brunetta, di piccola statura, con capelli neri, insomma una Lucia intelligente e dolce di carattere come la Lucia che conoscete; ma piacevole e burlona, tanto che la domenica intratteneva tutta la brigata raccontando le “storie”».
Si sa che il Manzoni venne poi messo in collegio all’età di 6 anni ed è ormai epico l’episodio di mamma Giulia che approfitta di un attimo di disattenzione del fanciullo per andarsene, del piccolo Alessandro che prorompe in pianto e dello scappellotto ricevuto dal prete che l’accoglie. In quanto a scappellotti, va detto, quei preti non erano certo avari e più volte il Manzoni ne fece le spese. «”Che barbarie!.... che sacrilegio….” – commenta lo Stoppani – Via amici cari. Chi ha il vantaggio d’essere a cavallo tra le due età (l’antica, cioè delle busse, e la moderna, cioè delle carezze), e la coda per tanto non l’ha troncata che a mezzo, trova che codeste son bazzecole. Uno scappellotto può far meno male di una carezza, e può fare anche più bene. Non dico che sia questo il caso. Vorreste però pigliare occasione di dare addosso ai frati, o accusarmi di volerlo fare io stesso? Mi vien da ridere! quasiché in que’ tempi non si vedesse la verga appoggiata agli angoli e lo staffile pendente dalle pareti di ogni scuola, e in difetto d’altro le mani del maestro sempre pronte, quando non fossero i piedi. (…) Il Manzoni del resto prova che le busse non impediscono che uno diventi genio. Stiamo a vedere quali geni ci usciran fuori, a furia di tolleranza, di carezze, di condiscendenze». Un argomentare destinato a periodiche fortune fino ai giorni nostri».
I funerali di Manzoni in un'illustrazione popolare
Non è in quelle vacanze lecchesi, tra il Caleotto e Pescarenico, che prende forma il gran romanzo, ma è in tali vacanze che il Manzoni incontra quelli che del romanzo saranno i personaggi. Personaggi reali, dice lo Stoppani: «Io credo che chi fosse giunto a raccogliere in tempo tutte le confessioni che sfuggivano all’autore dei “Promessi Sposi” avrebbe potuto rintracciare qua e là nei posti ove egli usava da bambino, o da giovinetto, la vera Lucia, il vero Renzo, l’Agnese, la Perpetua, il sarto, il conte Attilio, don Rodrigo, il conte zio, l’oste della Luna Piena, insomma tutti i personaggi del romanzo. Non è nemmeno difficile che quei personaggi Manzoni li abbia incontrati vivi e parlanti». Lo stesso don Abbondio sarebbe un personaggio reale: «Io potrei declinarvene il nome e il cognome, parce sepultis! Egli era naturalmente un curato, con cui usava spesso Manzoni nella sua prima giovinezza. Lo conobbi anch’io ma troppo poco per potervi assicurare da mia parte, che egli fosse un don Abbondio in carne e ossa». Però, un aneddoto che si tramanda ne testimonierebbe «un intero programma di saper vivere, di saper navigare».
La stessa monaca di Monza – di là dal personaggio storico – qualcosa pur deve a certi esempi famigliari: «Alessandro Manzoni come aveva due zii preti, così aveva una zia monaca. Una Geltrude? Buon Dio! Nemmeno per sogno. Era però una donna di temperamento vivace, d’ingegno aperto: possedeva insomma tutte le riprese di una donna brillante. Non l’avevano spinta per forza al monastero, ma ce l’avevano condotta e lei si era lasciata condurre. Venne la soppressione ordinata da Giuseppe II e la monaca, ringraziandone Dio, uscì fuori proprio come un uccello a cui il pietoso detentore abbia aperto spontaneamente lo sportello. (…) Ritornata ai patrii lari, l’ex monaca si era assunta lei una parte dell’educazione di Lisandrino, a cui aveva preso a volere un gran bene e questa parte era di farne un giovinotto… se vi par troppo il dire galante, diremmo brillante, che non daremo così occasione di pensar male a nessuno. (…) “Vede lei” diceva un giorno il Manzoni in uno degli ultimi anni della sua vita, ad un amico mentre passavano per la via di Santa Prassede, “vede lei quella finestra? Un giorno ero là colla zia che mi insegnava il viver del mondo. D’un tratto eccoci alle spalle lo zio monsignore; e la zia svelta a regalargli, come si dice, una buona cavatina, cambiando discorso con tale disinvoltura, da far invidia al comico più provetto».
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Dario Cercek