SCAFFALE LECCHESE/144: nel ''cortile'' di Aloisio Bonfanti la storia di anni tragici
Il cortile delle botti e dei sassi. C'è ancora. Anche se ormai ha cambiato aspetto: l'acciottolato ha lasciato il posto all'asfalto e gli edifici che lo circondano sono stati ristrutturati da tempo: «Il grande cortile delle botti, lo chiamavano i lecchesi negli anni del secondo dopoguerra. Era il cortile di via Ghislanzoni 10, davanti all'edificio scolastico. La contemporanea presenza di due commercianti di vino aveva riempito il cortile di botti, grandi, quasi rotonde, distese e ammucchiate sul fondo di sassi. (...) Sul fondo del cortile l'ampio terrazzo copre il porticato, dove nei primi decenni del secolo si aprivano stalle con cavalli, depositi di carne, riserve di fieno».
E' cortile dal particolare valore affettivo per Aloisio Bonfanti, il giornalista autore di tanti libri di piccola storia lecchese: lì vi è nato un'ottantina d'anni fa e lì vi ha trascorso i primi anni di vita. Che erano anni di guerra. E quando suonava l'allarme aereo ci si rifugiava «nelle solide ed estese cantine collegate da un tunnel che passa sotto la fascia centrale del cortile. Erano le cantine del vino, delle botti. (...) I pericoli delle incursioni aeree anglo-americane, che Lecco visse con intensità nel primo quadrimestre 1945, ovvero gli ultimi mesi di guerra, rappresentavano il più visibile segno delle sofferenze della popolazione civile, stretta dalla morsa di opposti schieramenti bellici, provata dai viveri razionati, dalla scarsità dei medicinali, dal coprifuoco serale dalle difficoltà di riscaldamento e con la paura di rastrellamenti, improvvisi controlli, irruzioni dentro casa».
Bonfanti ha voluto intitolare proprio "Il cortile delle botti e dei sassi" un libro uscito nel 1999 per l'Emmepi Editoriale di Alfredo Polvara e dedicato a episodi della seconda guerra mondiale e della Resistenza nel Lecchese. Non si tratta di un saggio dall'esposizione sistematica, bensì della raccolta di articoli pubblicati nel corso dell'ultimo decennio del secolo scorso. Che ci consentono, attraverso «testimonianze, vicende, rievocazioni di personaggi, fatti anche minori», di guardare a un'epoca storica drammatica e sotto alcuni aspetti poco raccontata e quasi dimenticata. Ed è opera preziosa l'aver raccolto una serie di ricordi dalla viva voce di persone che di quelle vicende storiche furono testimoni. Evitando così che un patrimonio di ricordi andasse perduto irrimediabilmente.
I bombardamenti, per esempio: «Fu terribile nel lecchese, per suono di sirene e allarmi aerei, l'estate del '44. Nei mesi di luglio, agosto, settembre, si superarono i cento allarmi, per un totale di cinquantotto ore di "rifugio". L'autunno fu ancora più tragico. Il 30 settembre e il 1° ottobre '44 vi furono i due grossi bombardamenti di Erba che provocarono quarantacinque morti il primo giorno, ventisei il secondo. Il 21 novembre, un bombardamento con mitragliamento, in località Scarena di Civate, fece cinque vittime- Il 22 novembre alle 8:28, il bombardamento dei consistenti depositi di carburante di Valmadrera, sulla strada verso Como, seminò panico nel lecchese; dopo i vibranti scoppi dei serbatoi "centrati" dalle bombe, una fittissima coltre di fumo coprì, nella mattinata, tutta la zona, trasformando il giorno nel buio della notte».
Il primo bombardamento di Lecco città fu il 9 gennaio 1945, Così registrava Ercole Regondi, che i lecchesi conoscono come orefice ma che all'epoca era milite dalla protezione antiaerea: «Alle ore 14:57 quattro caccia-bombardieri provenienti da Sondrio piombavano su Lecco e dopo un giro ad ovest scendevano in picchiata e mitragliavano la periferia della città, verso Maggianico, precisamente la stazione ferroviaria e la fabbrica Elettrochimica dell'Adda. Si registra un solo ferito leggero e lievi danni».
Bombardamento su san Giovanni
L'ultimo, il 25 aprile, il giorno della liberazione di Milano, ma non di Lecco ancora sotto il controllo dei nazifascisti del quale si avrà ragione solo due giorni dopo: «"Alle 22:35 si udì il rumore della picchiata seguito da una forte scarica di spezzoni dirompenti che sibilando spaventarono tutti" ha lasciato scritto nel suo "Diario bonacinese" il compianto ricercatore storico Arsenio Mastalli (...): "Gli ordigni micidiali caddero su Cereda, ove fecero crollare una casa, e su San Giovanni alla Castagna, precisamente sul Catenificio Villa e sul Dopolavoro Montalbano, dove fecero due morti.» Da non molti anni, in corso Monte Santo a San Giovanni una targa posta da Comune e musei ricorda quell'evento e una recente ristrutturazione dell'edificio accanto alle scuole non ha cancellato i segni delle pallottole rimaste nel muro.
Tra il primo e l'ultimo bombardamento una serie di incursioni tra cui quella sulla Fiocchi di Belledo, mentre il ponte sull'Adda, aveva nel monte Barro un angelo protettore.
E poi c'era "Pippo", «il misterioso velivolo che appariva nottetempo, con ricognizione saltuarie; un aereo che, per alcuni, era affidato ai piloti britannici e usato soprattutto per la guerra psicologica che per quella effettiva», però la sera del 31 marzo «fece cadere sulla città tre "confetti" pesanti. Si disse che Pippo, sulla città totalmente oscurata, come tutte le sere della primavera 1945, ebbe la "pista" seguendo i fanali dell'ultimo tram che arrivava a Lecco da Como».
Oltre alle bombe, gli aerei alleati lanciavano aiuti per la Resistenza e paracadutavano i loro agenti: come l'italo americano Louis Biagioni atterrato in Valle Imagna e le cui missioni lecchesi si intrecceranno poi con la rete di assistenza per l'espatrio che aveva quale punto di riferimento la casa delle sorelle Villa ad Acquate: come un altro italo-americano, Giacinto Lazzarini sceso del cielo ai Piani Resinelli e portato poi a rifugiarsi in una casa di via Galandra a Castello di Lecco dove venne improvvisata una centrale radio.
La piccola storia locale si intreccia poi naturalmente con quella grande. Soprattutto nelle ultime ore drammatiche del fascismo. Il libro di Bonfanti sottolinea alcuni episodi. Proprio Lazzarini avrebbe avuto un ruolo nell'operazione che avrebbe significato un destino diverso per Benito Mussolini. Secondo un piano degli americani, allertati dal "valsassinese" ingegner Nino Cugnasca, «Mussolini avrebbe dovuto lasciare Como su un'autoambulanza di Erba, raggiungere Lecco e poi Mandello, dove, sotto la difesa delle squadre di fabbrica della Moto Guzzi, sarebbe salito su un idrovolante per destinazione Sud». Lo stesso Lazzarini avrebbe raggiunto l'allora prevosto lecchese Giovanni Borsieri chiedendogli «di andare a Como, con un'auto messa a disposizione dalla Moto Guzzi, per garantire al Duce salva la vita, "sull'onore dell'Armata Americana". Monsignore accettò, ma la missione non ebbe successo». Ma, si chiede Bonfanti, «ci fu veramente questo "viaggio" del prevosto di Lecco a Como?». Però, a ulteriore conferma degli intrecci che nelle ore fatali del duce andavano facendosi e sfacendosi, spunta la figura di Salvatore Guastoni, procuratore commerciale del Salumificio Vismara di Casatenovo con lasciapassare per la Svizzera,: lui era l'agente "Dorino" che avrebbe avuto l'incarico di "recuperare" il duce in fuga. Si sa che da Como, Mussolini prese la strada del lago e scartò anche l'ipotesi di raggiungere la Svizzera attraverso la Val Rezzo, aiutato da un parroco del luogo, don Nemesio Farina, prete originario di Bosisio Parini dove poi sarebbe stato sepolto. Come sia finita per Mussolini si sa. Ma Bonfanti dà conto anche delle controverse ipotesi avanzate da alcuni storici: che a uccidere Mussolini siano stati gli inglesi per via dei famosi segreti sui rapporti con Winston Churchill e l'ormai mitologico carteggio affidato al lecchese don Giovanni Ticozzi e forse nascosto nel casello degli attrezzi del cimitero di Oggiono.
Gli è che sulle ultime ore del fascismo e di Mussolini c'è ancora una coltre di mistero che quasi ottant'anni di ricerche non sono riusciti a dissipare, addensandola anzi maggiormente per via di versioni che si accavallano e si contraddicono. Tra le altre, appunto la "pista inglese", testimoniata da Bruno Lonati, ex partigiano legnanese, in un libro pubblicato nel 1994 ("Quel 28 aprile", editore Mursia) e nel quale dichiara espressamente di avere fucilato egli stesso Benito Mussolini e Clara Petacci, la mattina del 28 aprile 1945, a pochi passi dalla casa di Bonzanigo dove il duce trascorse l'ultima notte. Lonati avrebbe fatto parte di un commando di partigiani guidati da un agente segreto inglese, un certo John, così che Bonfanti ha gioco facile nel titolare il capitolo "Il partigiano John" richiamandosi al Johnny di Fenoglio. Se l'esecuzione "ufficiale" davanti a Villa Belmonte di Mezzegra è ormai ritenuta solo una messa in scena, sulla fucilazione reale i racconti sono molteplici e i dubbi si affollano. La "pista inglese" ha incontrato l'attenzione di storici anche importanti, ma per ora l'unico documento concreto è appunto la testimonianza di Lonati.
Il legame di Lonati con il Lecchese è una parentesi valsassinese di qualche anno, «dal 1981 al 1985. Abitavo a Introbio dopo essere stato per un breve periodo a Barzio, dove i suoceri avevano una casa di vacanze estive».
Intanto, per tornare all'aprile del 1945, le truppe americane arrivavano anche a Lecco, accampandosi alla Besonda dove, tra l'altro, «una bella storia d'amore è sbocciata tra i verdi prati. (...) E' avvenuto l'incontro di Antonietta Corti, classe 1928, lecchese del Piscen, in quartiere Pescarenico, con un sottufficiale statunitense, di origine hawaiana-nipponica, Antonio Oyadomari, maggiore di circa dieci anni. Nel 1946 Antonietta e Antonio si sono sposati a Livorno presso il Quartier Generale delle truppe Usa in Italia e sono partiti per la lontanissima Honolulu dove tuttora abitano».
Sta proprio in questi racconti la particolarità di Bonfanti, il suo inserire nella narrazione questi piccoli dettagli, episodi che certo non cambiano la Storia, ma attraverso i quali meglio comprendiamo come la Storia ci tocchi davvero tutti. Nel bene e nel male. Qui abbiamo accennato soltanto ad alcuni degli oltre settanta articoli raccolti nel libro e che aprono una serie di finestre su quegli anni tragici, «in particolare - scrive - il biennio 1943-45, il più buio della storia unitaria italiana».
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Dario Cercek