Un anno di guerra in Ucraina: i racconti di due donne (una sposata con un russo) ospiti a Calolzio. 'Manca casa'
Un anno. È già passato un anno da quando, il 24 febbraio 2022, la Russia ha attaccato l’Ucraina. Per la prima volta dopo decenni, la guerra è tornata in Europa portando morte e distruzione. Il flusso della storia, già pesantemente influenzato dalla pandemia, ha subito un nuovo importante stravolgimento, le cui implicazioni effettive sono ancora per lo più ignote. Eppure, negli ultimi dodici mesi i media si sono riempiti di presunti esperti con la verità in tasca intenti a deridere, soprattutto sui social, chi non la pensa come loro. Un fiume di analisi, previsioni, commenti, supposizioni spesso formulate da persone che fino a quel momento non si erano mai occupate di vicende estere. In tutto questo cosa rimane? La testimonianza. Rimane la testimonianza dei professionisti coraggiosi che lavorano sul campo e dal campo raccontano le conseguenze del conflitto sulla quotidianità di un popolo. Oppure rimane proprio la testimonianza delle ucraine e degli ucraini. Come Halyna Shtyrkhunova e Iryna Kliuchka, oggi ospiti dell’associazione comunità il Gabbiano odv.
Iryna, Maria (la mediatrice culturale) e Halyna
“Sono nata e cresciuta a Luhans’k. Quando è scoppiata la guerra nel 2014 sono scappata a Kiev da alcuni parenti. Nel 2016, mi sono spostata a San Pietroburgo con un russo. Nel maggio 2022 siamo venuti in Italia. Qui c’è mia mamma. Saremmo arrivati prima ma abbiamo dovuto aspettare che rilasciassero il visto a mio marito” ha esordito Halyna, trentasette anni, capelli marroni, invalida. La tranquillità con cui ci ha ricordato che in Ucraina c’è la guerra dal 2014 è il miglior antidoto all’ipocrisia dell’opinione pubblica che accorge delle crisi solo quando è inevitabile farlo. Come per il terremoto in Siria. “Nel 2014 e nel 2015 i bombardamenti sono stati frequenti e intensi. Mancavano la luce, l’acqua, il cibo, i farmaci. Ci si aiutava a vicenda con quello che c’era”. La tensione nel racconto cresceva. Sul viso della donna era comparso un velo di tristezza. “L’ospedale che frequentavo si trovava vicino ad una scuola militare. Quando i separatisti hanno attaccato lo hanno danneggiato. In quel momento ho deciso di andare via, lasciando mio padre e i miei amici. Alcuni di loro sono stati torturati nei sotterranei”. Halyna si è fermata per un attimo e ha abbassato lo sguardo sospirando. La sua voce si è fatta più dura. “In Donbass c’era una corruzione endemica. I russi hanno comprato i politici e i magistrati. Un mio ex amico è stato comprato. È una cosa andata avanti per anni, ben prima del 2014. I separatisti erano persone inserite di proposito tra le gente. Solo la gente comune, che comunque è la maggioranza, era rimasta davvero pro – Ucraina”. Un altro sospiro. Lo sguardo della donna ora tradiva preoccupazione. “Mio padre vive in periferia a Luhans’k. Nel 2014 – 2015 vedeva i missili dei russi e dei separatisti arrivare e capiva dove avrebbero colpito. Ora vede i russi e i separatisti rispondere tirando dalla città verso le postazioni ucraine. I nostri soldati però sanno dove bombardare e colpiscono solo magazzini di armi o obiettivi sensibili”.
Anche Iryna era preoccupata. Per suo figlio, militare dell’esercito di Kiev. “Vivevamo a Kharkiv. Alle 5 di mattina del 24 febbraio abbiamo sentito le prime esplosioni. Mio figlio si trovava con alcuni suoi commilitoni ed è stato colpito. Non ho avuto sue notizie fino a sera quando mi ha scritto che stava bene. Da quel momento in poi non ho più saputo dove si trova” ha raccontato la donna, quarantasei anni, capelli biondi. “Il nostro appartamento è stato colpito. Ho preso l’altra mia figlia di dieci anni e mia nuora e siamo corse a nasconderci in un bunker sotto una chiesa”. Ricordare era doloroso per Iryna. Le sue parole, scandite con chiarezza, erano macigni. “Dopo tre giorni, la nuora è andata a rifugiarsi da un'altra parte. Io e mia figlia di dieci anni siamo rimaste in quel bunker per tre settimane. È stato molto difficile. Potevamo uscire solo per cinque minuti al giorno. Quando sentivamo che arrivava un missile correvamo a nasconderci. I bombardamenti erano continui”. La tensione del racconto saliva. I rumori provenienti dal giardino si facevano più sfumati in sottofondo. “Non riuscivo a dormire e facevo fatica a mangiare. Pensavo a mio figlio che era fuori a combattere. Mia figlia ha iniziato ad avere paura del buio. C’erano tante persone che continuavano a parlare e a leggere le notizie. Non era casa nostra. Non ce la facevo più e così siamo scappati”. Poche settimane prima, la famiglia aveva comprato dei biglietti per venire a visitare il lago di Como. “Ci siamo spostati in treno fino a Leopoli e poi da lì siamo andati in Polonia e poi in pullman in Italia. A Kharkiv, però, oltre a mio figlio sono rimasti anche mia madre e i miei amici. Tutti i compagni di classe di mia figlia sono rimasti lì” ha raccontato ancora Iryna. “Spesso mancano acqua, corrente, riscaldamento. Quando sentono l’allarme aereo sanno che le difese non sono riuscite ad intercettare un missile russo. Si mettono nei corridoi e aspettano di capire dove cadrà”. Abbiamo chiesto alle due donne dei loro progetti per il futuro. “Io sono nata a Pripjat. Avevo un anno quando è esplosa la centrale nucleare di Chernobyl. Ho vissuto anche quella fuga. Sicuramente non torneremo in Russia, anche perché rischierei di finire in galera. Staremo qui in Italia o faremo rientro in Ucraina ma solo se mio marito potrà vivere nel paese” ha risposto Halyna con decisione. Poi, osservando proprio l’uomo che aspettava fuori, ha aggiunto: “In Russia c’è tanta propaganda. Le persone pensano che gli attacchi dei militari siano mirati e non coinvolgano le persone. Mio cugino, che vive e lavora in Russia, un giorno ci ha chiamato e ci ha detto che l’esercito di Mosca ci avrebbe liberato. Lo abbiamo mandato a quel paese. Ne’ io ne’ mio marito abbiamo più alcun contatto con persone che vivono in Russia”. Infine, la chiosa: “Meglio morire liberi che vivere da schiavi come i russi. Sono sicura che gli ucraini non molleranno e resisteranno. Però servono le armi occidentali. Mio cognato è un militare e ha detto che scarseggiano le armi”. Più sintetica ma altrettanto netta la risposta di Iryna: “Noi ucraini siamo forti e non molliamo facilmente. Tutto quello che è nostro deve rimanere nostro. Con i russi non si può negoziare. Qui io sto imparando la lingua e spero di trovare un lavoro. Non so cosa succederà in futuro. Mia figlia è stata accolta benissimo a scuola ma le mancavano i suoi amici ucraini. Ora per fortuna nell’appartamento dove viviamo è arrivata un’altra famiglia ucraina con una figlia piccola”.
Dopo aver ringraziato Maria Lynova, la mediatrice culturale del Gabbiano che ha svolto il ruolo di interprete, abbiamo posto un’ultima domanda alle due donne: “Cosa vi manca di più della vita di prima?”. “Le persone. Le case si possono costruire, il lavoro si può trovare. Mancano le persone” ha replicato Halyna. “Manca Casa” ha aggiunto Iryna.
Andrea Besati