SCAFFALE LECCHESE/138: 'Asmara addio' di Erminia Dell'Oro, dalle radici eritree di nonno Carlo
Anno più anno meno, è stato quasi un secolo di storia. Non poco per una nazione esistente da circa un secolo e mezzo. Eppure – concordano gli storici – è epoca lasciata nell’ombra o quasi. Con qualche conflitto irrisolto. Parliamo delle colonie italiane: il Corno d’Africa, la Libia. Mete anche di molti lecchesi, fin dall’Ottocento, cioè agli albori della “conquista”. Coloni. Come, per esempio Carlo Dell’Oro da Acquate: nel 1897 si imbarcò per il Congo belga dove pare fosse già presente una piccola comunità lecchese. Sennonché, per un imprevisto, il viaggio si interruppe in Eritrea e lì si stabilì. A restituircene il ricordo è un libro di Erminia Dell’Oro, scrittrice italiana nata e cresciuta ad Asmara, la capitale eritrea dove appunto il nonno Carlo – eccolo lì – aveva piantato le proprie radici.
Erminia Dell'Oro
Venuta a vivere nel 1958 a Milano (dove ancora abita), sarebbe poi stata raggiunta dalla sorella, mentre il fratello è ancora oggi ad Asmara, Erminia ha avuto quel che si dice una vita impegnata politicamente e culturalmente. Per quindici anni, dal 1975 fino alla chiusura del 1990, fu anche responsabile della Libreria Einaudi che era stata fondata nel 1951 da Vando Aldrovandi, altra figura che in qualche modo rinnova un legame lecchese: era infatti stato un comandante delle formazioni partigiane operanti tra Valsassina e Valtellina all’indomani dll’8 settembre 1943.
I legami sono comunque quelli che Dell’Oro ha mantenuto con la sua terra d’origine e non soltanto per ragioni famigliari ma avendone seguito, anche come giornalista per diverse testate, le vicende politiche, l’indipendenza, il conflitto tra Etiopia ed Eritrea, la dittatura, i passaggi drammatici.
Nonno Dell’Oro, che nel romanzo si chiama Filippo Conti, «viveva a Lecco – così scrive Erminia - in una vecchia e bella casa su una collina che guardava il lago, con genitori, fratelli e sorelle (…). Aveva un’industria tessile e gli uomini della famiglia sapevano che la loro vita era incanalata in un’unica direzione, lo sviluppo della fabbrica, e le donne si interessavano di associazioni benefiche e accudivano figli e mariti. C’era stato un momento di smarrimento, nella numerosa famiglia Conti, quando un fratello del padre di Filippo decise di partire per la Cina. (…) Filippo, dopo la norte della madre che aveva amato moltissimo, divenne irrequieto. Detestava la fabbrica e sognava l’Africa, il misterioso paese dove gli uomini bianchi andavano a fare gli esploratori e i coloni, e un giorno decise di partire» e si imbarcò per il Congo. «Dopo molti giorni di navigazione, la nave fece una sosta nel porto di Massaua sul Mar Rosso. Furono segnalati a bordo due casi di febbre gialla. La nave fu messa in quarantena. (…) Terminata la quarantena, scese a terra con i compagni di viaggio e provò un senso di sollievo (…) conobbe i coniugi Levi, due ebrei sbarcati da poco a Massaua, provenienti dall’Europa orientale e diretti all’Asmara, un villaggio sull’altopiano dell’Eritrea dove ci sarebbe stato molto da fare. Filippo (…) decise di non proseguire per il Congo, ma di dirigersi verso quell’altopiano oltre i duemila metri, dove gli diceva qualche colono del luogo, le notti erano fresche e le giornate terse e ventilate. (…) A pochi chilometri da Massaua la piccola carovana si soffermò qualche attimo, davanti al colle di Dogali dove un anno prima, nel 1896, cinquecento italiani erano stati uccisi dagli abissini, (…) Un giorno il lontano popolo abissino, che non aveva chiesto a nessuno di essere colonizzato, avrebbe dovuto pagare a caro prezzo quel massacro».
In quanto ai nonni paterni, Erminia Benedetti «muore a quarantasette anni di ernia strozzata» e poco dopo Carlo «cominciò a soffrire di cuore. (…) Gli dissero che non poteva continuare a vivere sull’altopiano; duemilacinquecento metri d’altezza erano troppi per il suo cuore debole. Dopo venticinque anni scese verso il mare (…) in quella calda, umida, Massaua, ancora inferno del Mar Rosso, ma più salutare per il cuore di Filippo, o forse non tanto, dato che mio nonno vi morì all’età di cinquantadue anni, e là fu sepolto finché i figli, molti anni dopo, lo disseppellirono per trasportarlo all’Asmara vicino alla moglie. Dopo tanto tempo, il suo corpo venne trovato intatto, i baffi lucidi, la pelle rosea e sotto le mani incrociate brillava una moneta d’oro. Filippo e Linda Conti ebbero la più bella tomba del cimitero di Asmara. Uno scultore venne apposta dall’Italia e nel bronzo scolpì le figure dei nonni».
Sarebbe però ingeneroso limitarci ai dettagli per i quali “Asmara addio” trova posto nel nostro Scaffale lecchese e tutto sommato si esauriscono in poche pagine. Del resto, per Erminia, il nonno lecchese è solo un ricordo altrui essendo morto molto prima che lei nascesse. Soprattutto, però, lo sguardo va oltre il destino personale di una bambina poi adolescente e infine giovane donna (i giochi, gli incontri, le amicizie, le letture, gli amori) e quello della propria famiglia (i dissidi tra i genitori, la morte di una sorellina) per consegnarci un’immagine della società eritrea d’allora, di quella ventina d’anni tra i Quaranta e i Cinquanta del secolo scorso. Che sarebbero pochi se non fossero quelli fondanti del Paese africano.
Nel contempo si avvia il processo di indipendenza e divampa la seconda guerra mondiale e ad Asmara, dove vive una nutrita comunità ebraica, giungono gli echi di quanto stia accadendo in Europa.
Erminia Dell’Oro racconta la propria vita di tutti i giorni nel corso di quei suoi primi vent’anni. Racconta quanto accaduto realmente, di romanzesco c’è qualche abbellimento stilistico. Racconta della comunità italiana e del suo ondeggiamento tra due patrie, delle fratture politiche con le zie che ammirano il duce, di uno zio tornato in Italia a fare il partigiano e del padre un po’ colonialista ma anche preoccupato che i suoi lavoranti (aveva un’azienda che amministrava e ristrutturava stabili per proprietari arabi) non corressero rischi e non patissero, aiutandoli fin dove possibile.
Racconta dei luoghi: i mercati, le strade, i monti, la gola del diavolo dove il vento sembra produrre voci magiche e infernali, Racconta dei personaggi, della comunità italiana benestante, della servitù locale, di una serie di figure a loro modo epiche: la lavandaia Turù, l’ascaro Mamasciò, la brutta Rigbé, la bambinaia Mafrasc, il guardiano Abbai, il pescatore Omar. E di un’isola incantata da raggiungere prima di andarsene, l’isola di Madote, l’isola degli uccelli creata da Dio in uno stato di eccitazione. La cui bellezza sarebbe all’origine della nascita della protagonista del libro per la quale Erminia Dell’Oro ha scelto il nome di Milena: «Turbata da tanta bellezza chiesi a Dio di farmi nascere – si legge nella prima pagina del libro -. Possibilmente vicino Madote. Dio mi promise che mi avrebbe accontentata ma prima doveva sistemare alcune cose. Per miliardi di anni continuai a scrivergli per essere sicura che non si dimenticasse della promessa. E finalmente Dio mi accontentò. Non volle farmi nascere a Madote perché era l’isola degli uccelli, ma c’erano luoghi, non distanti, dove poteva inventare la mia vita. Diede un’occhiata all’altopiano dell’Eritrea, una fiaba sospesa nell’aria africana (…). Dio decise di farmi nascere sull’altopiano, non lontano da Madote come gli avevo chiesto».
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Dario Cercek