SCAFFALE LECCHESE/125: Giuseppe Bovara nei libri delle sue memorie e delle sue collezioni

Sono già state annunciate per il 2023 adeguate celebrazioni in occasione dei 150 anni della morte di Alessandro Manzoni (22 maggio 1873). Ma sempre nel 2023 ricorrerà un altro analogo anniversario, quello della morte dell'ingegnere e architetto Giuseppe Bovara, pure avvenuta 150 anni fa (2 dicembre 1873). Personaggio certamente di minore risonanza ma egli pure illustre, almeno nel nostro piccolo mondo dove molti segni ha lasciato. Piccolo mondo che già in passato l'aveva «presto dimenticato» nonostante «senza trascendere dalla simpatica modesta» avesse desiderato «di essere ricordato nei tempi»: così scrive lo storico Angelo Borghi nella prima corposa biografia che risale al 1975. Il libro "Giuseppe Bovara. Architetto", venne pubblicato dal Comune di Lecco in 1200 copie numerate (stampa Stefanoni). L'uscita era stata programmata per il 1973, nel centenario esatto della morte, ma «la laboriosità delle ricerche d'archivio - è la giustificazione dell'allora sindaco Rodolfo Tirinzoni - e la raccolta del copioso corredo fotografico hanno ritardato fino a oggi la realizzazione di questo doveroso tributo alla conoscenza di uno fra i più illustri figli della nostra terra». Va inoltre ricordato che Borghi è, con Aroldo Benini, tra i fondatori, ormai più di cinquant'anni fa, di quell'associazione impegnata nella ricerca storica locale e che è intitolata proprio a Giuseppe Bovara.

 

In quanto al più illustre Manzoni e nonostante Bovara fosse più vecchio di quattro anni, tra i due vi era un'amicizia che «risaliva alla fanciullezza - rileva lo stesso Borghi -, quando insieme si divertivano a creare ruscelli e molinelli nel prato di casa Bovara; amicizia che continuò trasformata in una sorta di devozione, tipica verso amici diventati importanti; ne è segno l'acquisto del terreno al Bione dove il Manzoni andava da giovane a cacciare allodole e ancor più il trasferimento nel giardino di casa Bovara del casottello di caccia». Accanto al volume del 1975 di Angelo Borghi, vi è inoltre "Memorie di un architetto. Autobiografia e Catalogo della Raccolta di Giuseppe Bovara" curato da Gianluigi Daccò e Barbara Cattaneo, la cui pubblicazione nel 1988 venne sostenuta da Rotary club e Banca popolare di Lecco (stampa Cattaneo). Era successo che l'anno precedente - spiega Daccò - casualmente in una libreria antiquaria di Milano tra tanti altri vecchi manoscritti sono state trovate queste "Memorie" di Giuseppe Bovara. Acquistate immediatamente dall'Amministrazione Comunale per i suoi musei (...)».

Il palazzo di via Bovara

 

Il libro annovera anche le collaborazioni di Maria Grazia Furlani, Franco Moro, Maria Grazia Sandri, Giuliano Ricci. Stefano Della Torre, Gianfranco Scotti e anche in questo caso Borghi. Le "Memorie" iniziano «con il "Catalogo degli oggetti" che l'architetto collezionava per se stesso e raccoglieva nella propria abitazione trasformata in una sorta di museo personale organizzato senza un particolare criterio: il casottello manzoniano, per esempio, era appunto entrato a far parte di questa collezione. «I suoi esiti come raccoglitore - scrive Franco Moro - danno piuttosto l'impressione di un tipo di tesaurizzazione ingenua ed istintiva. (...) Il catalogo, comprendente oggetti andati prevalentemente dispersi, è compilato dal Bovara ormai anziano e costituisce la testimonianza di un assemblamento di pezzi che per l'artista hanno un prevalente, se non fondamentale, significato personale: quadri, stampe, disegni acquarellati, modelli in sughero di antichità romane e in legno di tiglio delle proprie realizzazioni architettoniche, marmi e gessi, bronzi e minerali, oltre a strumenti di misurazione e ad una cospicua biblioteca».

Una sorta di museo che era - sostiene Borghi - «l'unica cosa d'arte veramente notevole a Lecco». In quanto alla cosiddetta autobiografia, in realtà non si tratta di un racconto vero e proprio ma più semplicemente di brevi annotazioni come fossero un diario perdipiù non aggiornato costantemente e nel quale si alternano gli eventi della vita professionale e di quella più intima ma anche le vicende pubbliche e politiche. Ricordiamo tra l'altro che siamo in piena epoca risorgimentale. Per esempio, nel 1848 registra: Le campane annunciano la rivoluzione in Milano e il cambiamento di governo con la venuta del Re Carlo Alberto in Lombardia. In quel dì, era appena finita la gran navata della chiesa di Lecco, dive in otto giorni feci demolire la vecchia chiesa, ch'era contenuta sotto la gran volta della nuova: vi fu cantato il Tedeum, che quattro mesi dopo venne ripetuto il Tedeum per il ritorno degli austriaci a Milano». Osserva Borghi: «Spirito non moralistico, dovette essere di un liberalismo tenue, come fu in genere quello dei cattolici. L'ambiente italico non doveva permettergli di essere conservatore o austriacante; aveva scritto epigrammi antiaustriaci e, se anche nella sua famiglia le ultime imprese napoleoniche non eran state condivise, qualche noia ebbe nei primi momenti della Restaurazione». Nato nel 1781 a Lecco, Giuseppe Bovara «iniziò probabilmente tardi gli studi - scrive Borghi - , ma li seguì con successo. Dopo la scuola dei Barnabiti di Sant'Alessandro di Milano, compì nel 1800 il corso inferiore di Brera; si iscrisse alla scuola di geometria e fisica e quindi all'università di Pavia, dove si laureava in ingegneria il 4 giugno 1803. Fu subito incaricato come geometra alla Carta topografica del Regno, per conto degli astronomi di Brera (...). Nel 1807 otteneva l'abilitazione alla professione, ma subito (...) vinse il posto pel soggiorno a Roma» dove avrebbe voluto rimanere ma nel 1811 la morte del padre «lo richiama in patria». Nell'estate «compie la prima opera lecchese (ma nel 1810 aveva disegnato una cereria realizzata più tardi): l'urna pel corpo di Sant'Eufrasio, elegante ripresa dei modelli sepolcrali paleocristiani. Avrebbe voluto insegnare ma non trova impiego, (...) fa richiesta per il posto di segretario del Consiglio delle Miniere (...), percorre Lombardia e Veneto e rintraccia minerali e descrive i luoghi di trasformazione. Non tralascia l'arte, frequentando la scuola libera di architettura che il Cagnola aveva aperto da poco». Nel 1814, la decisione di abbandonare le incombenze ingegneristiche e di dedicarsi completamente all'architettura. Leggiamo nelle "Memorie": «Venni in mancanza d'altri periti assunto per visite giudiziarie, per incendii di boschi, per straripamenti di fiumi, per ripari di fabbriche, ma queste incombenze non mi erano di genio. Mi determinai ad abbandonarle, e mi occupai dei modelli delle fabbriche che mi occorrevano». Bovara dunque comincia quel percorso che lo porterà nel mezzo secolo successivo a molte realizzazioni tra Lecco e l'immediato circondario. «Il debutto - scrive Furlani - avviene con la facciata della chiesa di Malgrate, da inserire in una cortina di case preesistenti».

E' il 1811, dunque appena tornato da Roma. Nel 1812 è la volta del progetto della parrocchiale di Valmadrera, mentre «nel 1814 ha l'incarico di progettare l'ingrandimento della chiesa prepositurale di Lecco, ma, forse perché egli lo esegue inglobando quella preesistente, che viene demolita solo quando l'involucro della nuova basilica è pronto, o forse perché i lavori si protraggono a lungo (la facciata sarà eseguita dopo la morte del progettista), oppure a causa di incertezze nelle richieste da parte dei committenti, questa non rientra tra le sue opere migliori proprio per una mancanza di proporzione e coerenza tra i vari spazi». Del 1844 è il Teatro della Società di Lecco, parte di un disegno volto alla «creazione della nuova piazza rettangolare, che da tempo era luogo di verziere e di passaggio e che doveva costituire il nuovo baricentro della città: essa doveva anche accogliere la nuova basilica di Lecco (che non fu eretta) e il nuovo teatro che, se non fosse stato per la tirchieria dei soci, avrebbe presentato un'articolazione di spazi collettivi tale da renderlo un notevole centro d'interesse». E naturalmente il nuovo ospedale che non sarà mai completato: «Per quest'opera - parole di Furlani - egli prevede una struttura molto grande, dalla pianta quadrata simmetricamente divisa in quattro parti, ciascuna aperta su un vasto cortile; progetta inoltre un orto per le piante medicinali ad uso dell'ospedale stesso. I lavori vengo iniziati nel 1836 e nel 1843, con il contributo economico dello stesso, viene aperto il primo quarto» che resterà l'unica parte realizzata e oggi diventata sede del municipio dopo essere stata anche tribunale. A fermare il progetto, problemi finanziari ma soprattutto la realizzazione della ferrovia che si mangiò anche parte del terreno destinato alla struttura sanitaria». Complessivamente, Borghi cataloga un centinaio di edifici tra civili e religiosi con tanto di scheda: oltre a quelli citati, case di abitazione, magazzini, fabbriche, fontane, portici, chiese ad Annone, Galbiate, Olginate, Calolzio, Canzo, Villa d'Adda, Oggiono, Bollate, Rogeno, Civate, Bergamo, Vercurago, Mendrisio e altre a Lecco, la basilica di Pontida e il santuario della Valletta di San Gerolamo. I lecchesi di città, inoltre, non debbono dimenticare gli interventi nella contrada di Porta Nuova, quella che ora è appunto diventata la via Bovara, della quale «ebbe cura con propri fondi» ci dice Borghi. Che aggiunge: «La rettificazione degli edifici da affitto e da molino era sottolineata come intervento di interesse collettivo, per il più facile passaggio della strada del territorio verso il lago e la piazza del Mercato. (...).

La rifusione di questi caseggiati di via Bovara 17 è particolarmente istruttiva (...) perché si configura come un raro intervento di abitazione popolare dove si ricrea la tipica vita di cortile della tradizione lombarda; elementarità funzionale si presenta negli spazi collettivi, nelle stanze, nei laboratori e botteghe su strada, nei depositi interni al cortile». E la serie di edifici sul lato della strada verso la basilica facevano parte della proprietà Bovara: lo ricorda ancora una lapide che designa il complesso come Palazzo Bovara, l'autentico Palazzo Bovara dimenticato da coloro tra politici e giornalisti che con tale nome sono ormai soliti appellare l'ex ospedale ora municipio. Per quanto riguarda l'architetto, «la produzione del Bovara è quasi povera - continua Borghi -, fortemente concreta: l'unico palazzo, quello Verza di Canzo, e la sola villa che conosciamo, quella per i Campagnari di Rancio (...), non presentano segni di sontuosità. Modesti anche i teatri, che lo attraggono forse piuttosto per la sua passione allo spettacolo. (...) Con una interpretazione varia, con continuità di sentire, il Bovara aveva costituito l'unica vera stagione neoclassica nel territorio che si era scelto. (...) Dell'architetto lecchese rimasero conosciute alcune opere e il suo orizzonte concordemente tracciato sul Cagnola. (...) Fu considerato un buon continuatore del neoclassicismo in provincia. Non vogliamo né riusciamo a toglierlo dal posto che si è anche scelto, seppure resta ora da dubitare se non gli possa spettare una collocazione più consona nel mondo artistico lombardo del primo Ottocento». Scrive Furlani: «Egli ha una formazione culturale molto moderna (...) in quanto affianca una cultura architettonica intesa come grande abilità grafica ed una approfondita conoscenza della storia dell'arte (...) a un bagaglio di conoscenze tecnico-scientifiche che gli derivano dall'essere ingegnere e che sono espressi nell'affermazione: "nelle opere di genio l'originalità non deve comparire stranezza né lo studio artificio"». A proposito dell'uomo, «era pieno di brio - aggiunge Borghi -, come appariva agli amici, coi quali amava fare passeggiate, dove non mancava la compagnia del buon vino. (...) Il suo studio era quindi diventato luogo di ritrovo per molti amici e compagni di scuola. (...) La completa disponibilità era stata il suo modo di procedere, anche nelle piccole realtà, come l'effusione che concedeva ai visitatori del suo museo». Nelle "Memorie", l'ultima annotazione è del 25 aprile 1865: «Bovara vivrà ancora 8 anni - scrive Daccò - ma non aggiungerà più nulla, avvolto ormai in una vecchiaia e una cecità profonde>». E il 2 dicembre 1873 - come scrisse l'abate Antonio Stoppani - «una vita tanto lunga quanto cara e preziosa si spense tranquillamente come il lucignolo cui l'olio vien meno».


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Dario Cercek
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