SCAFFALE LECCHESE/113: Dino Brivio e la storia di San Girolamo con i suoi 'itinerari'
Attraverso la consultazione di documenti e pubblicazioni anche minori, Dino Brivio ci restituisce la figura di san Girolamo Miani (a volte registrato come Emiliani) nato a Venezia nel 1486 in una famiglia dell'aristocrazia e destinato a una carriera militare, abbandonata per dedicarsi a quelli che oggi usiamo definire "gli ultimi". Con un susseguirsi di vicissitudini ed eventi miracolosi. Come la liberazione dal carcere per opera della Madonna, circostanza che appunto sarebbe stata all'origine della "nuova vita" o come l'acqua fatta sgorgare dalla roccia.
Nello stesso tempo ci viene raccontata la storia di un eremo diventato un santuario frequentatissimo e della nascita di un Ordine religioso che è appunto quello dei padri somaschi. Per accompagnarci, infine, in una visita alla Valle San Martino. La quale, passati ormai quasi quarant'anni, oggi è indubbiamente un po' cambiata. Per esempio, quell'altro santuario che è il monastero del Lavello in riva all'Adda a Calolziocorte, del quale Brivio segnalava e documentava fotograficamente il forte degrado provando «una gran pena a vedere un monumento così importante in condizioni di abbandono», oggi è stato recuperato e versa in condizioni migliori anche se il destino continua a essere travagliato.
Somasca e la sovrastante rocca avevano peraltro una storia già densa e movimentata, quando Girolamo vi arrivò nel 1534 con la sua comitiva di orfani.
Facciamo parlare direttamente Brivio, anche quando si affida a citazioni d'altri, nel seguire gli spostamenti di Girolamo e dei suoi orfani che passano per Brescia, Bergamo, Milano, Pavia e Merate «ospitati in casa di Francesco Albani, il cui nome figura tra quelli dei primi insigni benefattori delle opere del Miani». Successivamente, provenendo da Como e «attraversata la Brianza piena di incanti, il gruppo degli orfani salì a Galbiate. Di qui l'occhio poteva ammirare il pittoresco panorama della valle dell'Adda. Gruppi di case occhieggiavano di qua e là dal fiume. (...) Scesero il lieve pendio che conduce a valle, e si fermarono alcuni giorni nella contrada di Garlate. Di là proseguirono il cammino per Olginate e, attraversato l'Adda, si diressero a Vercurago» per raggiungere poi Calolzio «dove non fu difficile a Girolamo trovare una casa che servisse di ricovero per i suoi figliuoli e compagni» sennonché il notaio del paese, tale Gian Antonio Mazzoleni «cominciò una campagna di denigrazione e di aperta ostilità contro il Servo di Dio. Che veniva a fare nel loro paese quell'ipocrita con i suoi vagabondi straccioni? Accoglierli significava rendere più gravi le misere condizioni della popolazione». Argomentazioni immortali, verrebbe da dire. Se allora «quelle parole cominciarono a far breccia in qualche spirito più debole», anche oggi certa gretta politica ci marcia mica male.
Da parte sua, Miani lasciò Calolzio «e poco dopo la partenza del Santo, il Mazzoleni fu colpito da paralisi alle gambe. Naturalmente, ognuno vide in ciò una punizione inflitta da Dio al denigratore del suo servo. Precisamente tre anni e mezzo dopo questi fatti, moriva Girolamo non lontano da Calolzio. Alla popolazione che saliva a e venerare la salma si univa anche il notaio Gian Antonio Mazzoleni, trascinandosi sulle grucce. Andava per implorare la guarigione da colui che in vita era stato così ingiustamente perseguitato per opera sua. E la vendetta che si prese Girolamo su di lui fu veramente degna d'un Santo. Prostrato vicino al feretro, il Mazzoleni piangeva e pregava. D'un tratto sentì scorrere per le membra ammalate un nuovo fremito di vita, s'alzò, abbandonò le grucce gridando al miracolo, e ritornò a casa guarito».
Mazzoleni a parte, «lasciato dunque Calolzio, il Miani si portò nuovamente a Garlate e ci prese una dimora provvisoria. Intanto osservava attentamente il paesaggio all'intorno (...). Fin dai primi giorni egli aveva notato un gruppetto di case, appollaiato si piedi di un monte roccioso e scosceso. Era il villaggio di Somasca. Là si si diresse Girolamo con il gruppo degli orfanelli. (...) Sappiamo che Girolamo pose la sede definitiva sulla Rocca, sopra Somasca; qui scendeva per assistere per assistere agli uffici divini o per portarsi nei paesi della Val San Martino, della Brianza e del Lecchese a lavorare, a insegnare, a mendicare».
Morto di peste nel 1537, Girolamo fu fatto santo nel 1767 e nel Novecento il papa brianzolo Pio XI lo proclamò patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata. Nel frattempo, era cresciuta la "compagnia" fondata da Miani: l'Ordine dei Somaschi aveva goduto di un certo prestigio fin dai suoi esordi se già nel 1566 e cioè a quasi trent'anni dalla morte di Girolamo, l'arcivescovo Carlo Borromeo decise di affidargli la direzione del «primo santuario rurale della diocesi di Milano» aperto proprio a Somasca dove rimase fino al 1579, quando «fu trasferito a Celana sopra Caprino donde successivamente, dopo oltre duecent'anni, al passaggio della Val San Martino alla diocesi di Bergamo, trasmigrò a Castello nella terra di Lecco».
E nel frattempo, cresceva anche la devozione nei confronti del santo e dei luoghi dove aveva vissuto. Sorse la chiesa e sorse il santuario: si cominciò a pregare sulla tomba del santo, sulle reliquie, nella cella della morte, nell'eremo dove si ritirava, lungo la "scala santa" di cento gradini che si sostiene realizzata dal santo stesso. la «costrusse portandosi a spalla le pietre e l'arena della riva del lago sottostante», come si legge nel numero del gennaio 1930 della rivista "I santuari illustrati d'Italia", dedicato proprio a Somasca: Girolamo.
Poi, «all'inizio del 1800 il padre Pietro Rottigni fece erigere l'arco di pietra al principio della strada» che dal paese e dalla chiesa saliva e sale verso la rocchetta e che sarebbe diventata poi la via delle cappelle erette in tempi diversi nel corso dello stesso XIX secolo. Sono proprio le cappelle la particolarità del santuario di San Girolamo: un piccolo sacro monte per il quale, nella sua Guida di Lecco, quel Giuseppe Fumagalli, del quale abbiamo già avuto modo di valutare l'anticlericalismo a proposito delle grotte di Laorca non spende parole di particolare apprezzamento: «Le rappresentazioni degli episodi sono fatte con figure che non voglio chiamar statue per non profanare con una parola mal detta l'arte del divino Michelangelo, ma così di terra o di legno modellati alla meglio e poi colorati; insomma roba da impietosirne i sassi (...) Molti sono i viaggiatori che vengono a visitare questo eremo, ma ci vengono pur anche quei del luogo e dei dintorni, mossi da una fede superstiziosa e goffa: questi ascendono al romitaggio per una scala di pietra che a mezzo della salita a zig-zag raggiunge l'ultimo tratto come una scorciatoia sulle strade dei monti. Si chiama la "scala santa" ed è formata da cento gradini, che i fedeli, massimamente le donne, fanno appoggiando le ignude ginocchia sulle pietre aguzze e taglienti, morando per ogni gradino un pater, un ave ed un gloria; e non v'è diluvio di pioggia o sferza di sole che valga a distoglierli da questo insano proposito».
Dino Brivio, profondamente religioso, non può che sentirsi disturbato da questo tono «irriverente e fin blasfemo», da queste «pagine non belle» eppure decide di riportarle comunque a «scopo di documentazione».
Di là dalla fede, va ammesso che le cappelle di Somasca non hanno la potenza espressiva degli autentici Sacri Monti e le scene non sono di particolare valore artistico: la "guida rossa" del Touring le definisce «di tradizione popolare», opera probabilmente di scultori locali, artigiani minori. La citata rivista dei santuari, collocando la realizzazione delle «graziose cappelle» tra il 1837 e il 1881, accenna a non meglio precisati scultori Cattaneo di Bergamo e Goglio di Piazza Brembana.
Eppure, l'intero complesso sacro ha acquistato una sua importanza non soltanto devozionale. Lo rilevava già il "blasfemo" Fumagalli nel 1881: «Ci si viene volentieri perché da questo eremo si sale sulla vetta più alta ove giacciono ruderi d'una antica dimora, battezzata per il castello dell'Innominato, quantunque nessuna favorevole circostanza possa confermare l'ipotesi, e da questa altezza si domina per estesissimo spazio il lago di Garlate e la Brianza. Questo poggio che visto dal basso non sembra una gran cosa, apparisce invece rispettabilmente alto quando ci si è su».
In quanto ai richiami manzoniani, la vicenda dei Promessi sposi si svolge in un secolo - chiosa la stessa Rivista dei Santuari - in cui «il fortilizio sulla Rocca non c'era più. Perché, già cent'anni prima, vi era salito S. Girolamo con quaranta suoi compagni e orfanelli e ne aveva fatto la sua dimora prediletta. E' però probabile che il Manzoni s'ispirasse a questi luoghi, perché la descrizione ch'egli dà del castello dell'Innominato s'attaglia quasi a pennello con la Rocca di Somasca».
E del resto - ci dice Brivio - è davvero probabile che lo stesso Alessandro Manzoni «abbia asceso la sacra rocca, sia quando fanciullo abitava con don Pietro e poi tornava a Lecco per le vacanze scolastiche, sia adulto quando di Milano usciva per la villeggiatura autunnale al Caleotto con la giovane sposa Enrichetta, con la mamma, con qualche ospite». Prima del 1818, prima cioè della vendita della villa e dell'addio definitivo ai luoghi dell'infanzia, quando a Somasca le «graziose cappelle» ancora non erano sorte. Ma - sottolinea ancora Dino Brivio - «Manzoni, si sa, ebbe un legame importante con San Girolamo, avendo ricevuto la prima formazione proprio dai figli del Miani, nei collegi di Merate e di Lugano. (...) Non erano dei più gradevoli, per il Manzoni, i ricordi del soggiorno in Merate, dove non ebbe risparmiate le busse (...) e vi dovette anche sopportare le angherie di compagni più grandi. Egli tuttavia, ormai vecchio, lodava ancora l'istruzione ricevuta a Merate, e compiaciuto parlava degli anni qui passati, e di quelli trascorsi poi a Lugano».