SCAFFALE LECCHESE/107: Carlo Amoretti e il viaggio fra le bellezze della Valsassina
Amoretti approfittava della missione per rispondere a certe sue curiosità, visitare le miniere, descrivere la flora e i monti, anche se - si è ironizzato - «notava più le belle ragazze che i fuochi dei forni».
Le annotazioni frutto di quel viaggio sarebbero diventate un libro oltre due secoli dopo su iniziativa dell'associazione degli "Amici della Torre" di Primaluna che per festeggiare il proprio quarantesimo anniversario, nel 2018 ha appunto pubblicato "Viaggio in Valsassina" raccogliendo appunto le considerazioni del naturalista settecentesco.
A curare la pubblicazione, Pietro Dettamanti, studioso del "viaggio in Italia" che i frequentatori di questa rubrica hanno peraltro già incontrato. E che spiega: «Il "Voyage en Valsasina" è il resoconto in forma epistolare di un viaggio da Milano alle miniere dell'Alta Valvarrone. (...) Dell'opera si conservano due manoscritti», uno autografo e l'altro derivato dal primo ma di mano diversa: una copia, dunque, forse eseguita da Cesare Cantù. «Il resoconto dell'Amoretti si presenta sotto forma di dieci lettere scritte in francese, ad eccezione di una che l'autore scrisse "per distrazione" in italiano» e indirizzate a un'anonima amica milanese e la cui identificazione è difficoltosa ma a noi tutto sommato poco interessa. Affascinati come siamo più dal tracciato e dall'importanza di quella strada verso il finire del XVIII secolo. Fa indubbiamente una certa impressione pensare alla valenza di quel collegamento, oggi che il tratto da Premana alla bocchetta di Trona è percorso da diporto, per escursionisti e premanesi che vanno a villeggiare ai Forni, toponimo che ricorda proprio l'antica attività di lavorazione del ferro scavato più a monte.
Al termine di ogni giornata di viaggio, Amoretti scriveva queste lettere che - è stato detto - erano dei veri e propri giornali di viaggio, una maniera di conservare i ricordi di quanto visto. E lo fa, con costanza, fin dalla prima tappa che porta la comitiva da Milano a Lecco e annotando, tra le altre curiosità, le bizze del torrente che sbocca dal Valgreghentino e «che, scendendo da queste montagne in decomposizione, innalza e allarga continuamente il suo letto» provocando «non solo inondazioni nella piana vicina», ma facendo «refluire l'acqua fino a Como» e perciò, con il Brembo e «il torrente di Lecco» è «la causa dell'innalzamento del livello del lago di Como». Eccolo qui, ancora, l'eterno problema.
Di Lecco dice che «sebbene il territorio sia abbastanza fertile, è ben lungi dal poter nutrire tutta la popolazione (...). Il paese trae il proprio sostentamento dalle manifatture di seta, di ferro, di olio, di carta, ecc., e si è calcolato che la mano d'opera ammonti a 10.000 lire giornaliere, il che può rendere un paese molto ricco. Tutta questa ricchezza si deve ad un corso d'acqua chiamato Fiumicella che fa muovere 117 opifici».
Visita poi «la grotta» di Laorca alle quali dedica molto spazio: il «vestibolo sostenuto da pilastri di stalattite, che è autentico alabastro, con una decorazione di mammelloni ed enormi priapi della stessa materia», la vegetazione a far da «tappezzeria», le «vasche di un bianco abbagliante» con quell'acqua che «trovammo fresca e pura», ma soprattutto miracolosa visto che si dava da bere agli ammalati e se ne aspergevano i bachi da seta per prevenirli da ogni malattia, beneficio dovuto all'eremita santo, Giovanni, che in questa grotta morì ed «era sepolto nella vicina cappella, ma il suo corpo non era mai stato ritrovato». Figura leggendaria sulla quale un secolo dopo avrebbe ironizzato il Giuseppe Fumagalli della prima guida turistica lecchese ma che ancora oggi resiste in certi racconti. Mentre Angelo Borghi, in un volumetto sulla storia di Laorca ci racconta di come le stalattiti che un tempo facevano della grotta una delle più belle di Lombardia finirono nell'Ottocento «ad abbellire i giardini di Milano».
Si entra poi in Valsassina «dove ci sono alcuni bei paesi e, tra gli altri, Cantello dove c'era l'unico convento di religiose di tutta la Valsassina, da poco soppresso». Tra l'altro, «fenomeno sorprendente (...) è che nessun ordine di monaci abbia mai potuto stabilirsi in queta valle così ricca ed estesa», nonostante abbiano «più volte provato a farlo, ma questi tentativi sono sempre falliti», sembrando «che i Torriani vi abbiano lasciato il loro spirito antimonastico».
Arriva a Vimogno e poi a Barcone e Gero: «Che spettacolo di orrori e di fremiti! Al di sopra di Vimogno sgorga dalla montagna un torrente denominato Fontana, che non trascina acqua ma pietre. (...) E' trattenuta da dighe, ma quale opera umana può resistere alla forza distruttrice della natura e al peso di una montagna che lascia precipitare le sue parti che si distaccano? Questi uomini vedono costantemente sopra di loro la terra che in ogni momento minaccia di seppellirli».
Il riferimento è alla tragica frana di Gero del 1762 che spazzò via un intero paese e uccise più di cento persone, dunque poco più di una ventina d'anni prima del viaggio di Amoretti «ed erano ancora vivi - ricorda Dettamanti - il ricordo e i testimoni di quell'evento» del quale il nostro visitatore tentò «di offrirne una spiegazione in termini strettamente geologici».
Scrive Amoretti: «Da cosa è stata provocata questa disgrazia? Ho osservato in diverse occasioni che le montagne erano un tempo molto più alte: decomponendosi, le acque trascinavano (...) i detriti i quali, accumulandosi sul pendio della montagna, hanno formato uno strato di materiale poco legato insieme. E' proprio su questo strato che si sono costruiti i villaggi, si sono coltivati i campi e piantati i boschi. Le acque che scendono dalla montagna, invece di avere un canale che le convogli nel fiume, s'infiltrano nella montagna stessa e penetrano fino alla base di questo strato di materiale portandone via una parte e indebolendo il resto; la lavina si distacca dal nucleo, lo smottamento prende rapidamente il via, il peso la trascina, la sua forza aumenta con la velocità, tutto è sconvolto, tutto cambia aspetto e guai a chi se la trova davanti».
E finalmente, la mattina del 27 luglio, alle cinque, il gruppo a dorso di mulo sale da Premana verso i Forni lungo il Varrone: «Sebbene si salga incessantemente, si continua a costeggiare il letto di questo torrente. Esso scorre in mezzo a montagne scistose, ma il suo fondo è coperto da massi di tutti i tipi di roccia, soprattutto granito rosso, bianco, verdastro e da una breccia rossa granitosa», tutti massi che «certamente sono rotolati da un luogo più elevato e da una montagna più alta che (...) non esiste più e si è dunque decomposta».
Lasciando Cusani ai problemi della strada, Amoretti si dedica alla visita di una miniera guidato dagli stessi minatori: «L'entrata era molto disagevole, ma il resto del percorso lo era assai di più. . Camminammo sempre curvi, urtando con la testa e con le spalle e procedendo talora sul ghiaccio, talora nell'acqua e più spesso sulla roccia. Si scendeva e si saliva, si svoltava da ogni lato e sempre con grande difficoltà».
Dei minatori dice che «il loro lavoro è estremamente faticoso e rischioso (...) L'anno scorso tre uomini rimasero sepolti. (...) Essi vivono così quasi tutto l'anno. Fanno ritorno a casa solo a Natale, a Carnevale e a Pasqua. Allora si abbandonano a tutti i divertimenti e dilapidano quanto hanno risparmiato nel resto dell'anno. (...) Di tanto in tanto tornano a casa a rivedere le loro spose. Una novella sposa, della più perfetta bellezza, era venuta questa mattina per abbracciare suo marito. Non avevo mai visto nulla di più bello nel suo genere (...) Che bella donna! Essa ha dormito con lui, vicino ad altri sei uomini che dormivano nella stessa baita».
E del resto «tutte le donne avevano le forme greche del viso e anche le brutte assomigliavano a quelle figure egiziane il cui viso, con la più grande regolarità dei tratti, sembra senz'anima. (...) Cosa fa sì che le donne siano così belle in questi dintorni? La ragione, a mio avviso, è che esse appartengono ancora alle antiche stirpi etrusche e romane (...) Hanno molta forza e vivacità e passano molti mesi all'anno senza i loro mariti, i quali lavorano nelle miniere o vanno a cercare fortuna nelle città: esse, vivendo sulle montagne, godono della più grande libertà possibile».
A proposito di bellezze femminili, Amoretti ha da raccontare una novella quasi boccaccesca: è la vicenda di un gruppo di forestieri alloggiato da un parroco che nel contempo ospita anche due splendide nipoti, l'una bionda e l'altra mora. La «bruna dall'aria vivace e appetitosa» viene corteggiata da un giovane marchese che riesce a farsi indicare la camera dove nottempo decide di infilarsi: «Alza le coperte, entra nel letto e abbraccia la persona che vi dormiva. - Gesummaria, è il diavolo! Aiuto! Una candela! - sente la voce rauca di una vecchia gridare queste parole. Nella casa si diffonde l'allarme: intanto il buon curato smaltiva nel sonno le sue abbondanti libagioni. Le ragazze accorrono con delle candele, il personale fa altrettanto e si vede il nostro giovane sventato, in camicia, vicino al letto, e la vecchia serva, anch'essa in camicia, dall'altro lato. Che bel quadretto!». E accorre anche il prete, per evitare le schioppettate del quale, al marchesino non rimane che che la scusa del sonnambulismo.