SCAFFALE LECCHESE/106: un tributo al Resegone, montagna simbolo, con due volumi

Domenica d'assalto al Resegone, oggi, al seguito della Società escursionisti lecchesi che quelle balze considera un po' il cortile di casa avendovi da un secolo circa il suo rifugio e che da oltre cinquant'anni, la prima domenica di luglio, chiama a raccolta i camminatori per una sorta di tributo a una montagna tra le più amate e per certi versi mitica. Autentica icona del nostro paesaggio. Vuoi per il celebre passo manzoniano dei «molti cocuzzoli in fila che in vero lo fanno somigliare a una sega», vuoi perché quella dentellatura che ritaglia il cielo, per secoli è stata quinta affascinante non solo per chi viveva alle falde ma anche per tanta pianura fino a Milano, quando l'aria era un po' più pulita. E davvero oggi ancora c'è chi si se ne commuove. Leggenda vuole, tra l'altro, che da lassù, nelle giornate terse, si possa addirittura veder brillare la madonnina del duomo di Milano. Ma quell'aria così trasparente con il cielo di Lombardia così bello quand'è bello - perdonateci il manzonismo - chi se la ricorda più?


Per noi lecchesi di città, è montagna simbolo, anche se poi ciascuno è cresciuto e cresce risalendo erte a portata di mano e pertanto ad altre crode ha magari legato ricordi e sentimenti. Che poi, dalla riva del lago, guardiamo la sagoma inconfondibile e nemmeno immaginiamo che dietro via sia - o, almeno, vi sia stato per secoli - tutto un mondo. Che fa del Resegone, assurto a simbolo di Lecco, una montagna anche tanto bergamasca.

Ci sono due libri importanti a raccontarci quel mondo, usciti una ventina di anni fa. L'uno è "Il Resegone. Il profilo più caro ai lombardi" scritto da Angelo Sala, corredato dalle foto di Duilio Costa e Giandomenico Spreafico, pubblicato da Bellavite nel 2002. L'altro è "Resegone. Orizzonte di roccia" con i testi di Alberto Benini e Sergio Poli e le fotografie di Mauro Lanfranchi, edito da Cattaneo nel 2003.

Con un incedere diremmo più letterario il libro di Sala, con un taglio più scientifico quello di Benini e Poli, nel loro insieme compongono un quadro straordinariamente affascinante. Che ci ricorda, come dietro quelle creste, ci sia stata vita. Tanta vita. E il nostro pensare quegli spazi come a semplice meta di scampagnate domenicali fa torto alle storie di uomini e donne che lassù hanno vissuto e faticato per secoli. Come ci ricorda, nell'introduzione al volume di Sala, Marco Anghileri detto "Butch", il fortissimo alpinista lecchese che sarebbe morto nel 2014 sul Monte Bianco: «Chi è nato a Lecco e dintorni non potrà mai togliersi dalla mente e dagli occhi la sua montagna (...) della quale va orgoglioso, come fosse una proprietà personale. Sì, lo guardiamo e lo ammiriamo senza mai stancarci il nostro Resegone, e guai a noi se dovessimo confessare di non esserci mai saliti su qualcuna delle sue cime. Eppure, nonostante questo orgoglio e la nostra consuetudine a considerarlo come parte integrante di noi stessi, siamo ben lontani dall'averne una conoscenza appena sufficiente».

Erna

Ci sono stati alpeggi, miniere, villaggi e c'era, soprattutto, una ramificatissima rete di collegamenti che univa le vallate e che erano vie frequentatissime se in Erna finì con il sorgere un "ospitale" - così ancora si chiama un nucleo di casolari - che accogliesse i viandanti. Mentre verso Morterone, un "canale Robasacco" testimonia come non sempre le frequentazioni fossero piacevoli. Non casualmente, correndo proprio da queste parti quel confine, frastagliato quanto il paesaggio, tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia, ancora testimoniato dai vecchi cippi rimasti qui e là.
Il racconto di Angelo Sala ha una scansione più geografica e molto si concentra proprio sulla storia di "confine: la Valle San Martino, l'Albenza, la Valle Brembilla e la Val Taleggio, i rapporti tra Morterone e Brumano dell'arcaica atmosfera perché «appartati nel silenzio dei boschi»: «Un microcosmo a sé, un intero mondo in scala ridotta». E' possibile «spaziare dalla montagna alla pianura». E poi «le terre ricche di vigneti» e, ancora, le architetture medievali e «un sapiente mixaggio di architetture tradizionali, rilevanti monumenti, luoghi di devozione e una natura incontaminata». E così, il libro descrive una sorta di itinerario per conoscere tutto un territorio articolato tra montagna e pianura, seguendo quei vecchi sentieri che nei secoli sono stati tracciati sulle pendici del Resegone.

L'indice scelto da Benini e Poli va dall'ambiente (geologia, flora, fauna) alla storia e al lavoro. E poi le strade, le croci le lapidi, la guerra. Anche se non è possibile - e il farlo sarebbe peraltro sciocco - cercare e rimarcare le differenze fra le due opere, percorrendo gli autori dell'una e dell'altra sentieri che sono in fondo gli stessi.
A proposito di quella che Sala definisce l'arcaica atmosfera di Morterone, Benini e Poli rafforzano il concetto soffermandosi a indagare quel che rimane degli antichi nuclei di Frasnida di Morterone e Arnosto di Fuipiano, il cui isolamento ha consentito che alcuni edifici sopravvivessero fino ai nostri giorni, a ricordarci «coriacei popoli» che facevano «le proprie case tutte di pietra, tetto compreso! E il risultato è tutt'altro che pesante: al contrario, queste piccole abitazioni alte e strette, col tetto a punta e le sottili finestrelle sono addirittura slanciate, e formano frazioncine quasi fiabesche. (...) Di questi nuclei tutti in pietra ve n'erano molti. (....) Purtroppo troppo tardi ci si è accorti della loro unicità e bellezza» Che è anche «la loro fragilità». E nelle pagine di Sala, troviamo Costalottiere, frazione di Erve, con «i piccoli porticati ad arco (...) che sono parte integrante delle vecchie case in pietra» perché è «impossibile, tranne che in qualche malaccorto aggiustamento, trovare qui tracce di mattoni. (...) Tutto è immutato come trenta o trecento anni fa, e come la traiettoria del sole nel cielo che illumina i vecchi balconi allungandone le ombre con il trascorrere delle ore». E troviamo Boccio, «una manciata di case aggrappate alla montagna nel territorio di Carenno« e «duecento metri più sopra, la località di Montebasso, dove ancora più accentuata è l'antica anima rurale».

Evidentemente dell'un libro e dell'altro non possiamo qui fornire una qualsivoglia sintesi. Che sarebbe manchevole. Ci limitiamo dunque a cogliere indifferentemente pochi spunti.
A cominciare dal nome: «La forma "Resegone" - leggiamo in Benini e Poli - è attestata con certezza a partire dalle parole del naturalista Vandelli nel 1763 e da un'incisione risalente a pochissimi anni prima ("Mappa confinaria fra il territorio di Lecco e quello di Bergamo", 1760 circa) conservata all'Archivio di Stato di Milano. Ma finché il Manzoni non la impiega nei "Promessi sposi" ha fortuna relativa... Qualcuno, il Saglio ad esempio, attribuisce i due nomi (Monte Serada e Resegone, ndr) a due entità distinte: "L'insieme della montagna porta il nome di Monte Serada perché si allarga e chiude le testate di alcune importanti vallate, ma la sua corona terminale viene chiamata Resegone ...». Dal nome e anche dai nomi: quelli imposti alle cime per ricordare «i tre più significativi rappresentanti dell'alpinismo lecchese dell'Ottocento» e cioè Antonio Stoppani, Mario Cermenati e Giovanni Pozzi» ed è «il modo più bello per onorare questi personaggi e per nobilitare nel contempo tre fra le cime culminanti del Resegone» con una quarta «battezzata (meritatamente) con il nome di un altro illustre: Manzoni»
E poi, le suggestioni letterarie. Non c'è solo il Manzoni, infatti. C'è anche, per esempio, il Carlo Emilio Gadda della "Cognizione del dolore" con il suo Serruchòn che si staglia sul paesaggio di una Brianza dalle atmosfere sudamericane. E naturalmente il Giosue Carducci che da Legnano faceva vedere il sole che «ridea calando dietro il Resegone»: topica o licenzia poetica che sia, è verso tra i più ripetuti.

E poi il primo rifugio che è la Capanna Stoppani, costruita nel 1895, le prime "esplorazioni" e l'avvento dell'alpinismo moderno che «ha per il Resegone una data di nascita precisa. Il 4 giugno 1911, quando Eugenio Fasana, in compagnia del fratello Pietro e di Pietro Mariani, affronta e supera, malgrado "il tempo caliginoso e le rocce bagnate" la parete Sud della Torre di Val Negra, per continuare verso la vetta del Resegone lungo la cresta sud-est».
Infine, proprio come al termine di un'escursione, ci piace fare sosta ai Piani d'Erna ai quali periodicamente i lecchesi guardano per un uso turistico le cui forme cambiano coi tempi e le mode. Una volta, quando ancora nevicava a quote basse, si erano tracciate piste da sci e installati impianti di risalita dei quali per anni sono rimasti malinconici scheletri di cemento abbandonati e oggi finalmente del tutto rimossi.
Su quel pianoro, negli anni Sessanta, si era pensato addirittura di realizzare un vero e proprio quartiere cittadino.
Leggiamo in "Orizzonte di roccia": «L'unicità di Erna è sancita dall'assenza di un collegamento viario assicurato in sua vece dalla funivia aperta al pubblico il 26 dicembre del 1966. L'operazione era iniziata solo sei anni prima, con la stesura di un mappale particolareggiato e una serie di rilevazioni climatiche che mettevano in luce il minor tasso di umidità rispetto a Lecco, la ridotta esposizione ai venti e risorse idriche bastanti all'insediamento di 6000 persone. Il cervello dell'operazione era uno degli imprenditori lecchesi più aperti al nuovo, l'ingegner Angelo Beretta. (...) L'immobiliare aveva suddiviso l'area edificabile in 230 piccoli lotti sufficientemente intervallati per scongiurare "l'effetto alveare". Nei vari lotti erano presenti campi sportivi, piscina, pro loco, posto di primo soccorso, negozi. Il villaggio doveva sorgere nascosto alla vista di chi guarda verso il Resegone da Lecco. In sostanza si sarebbe dovuto trattare di un quartiere atipico, completamente autonomo rispetto alla città».
Scrive Sala «Avremo in Erna, si diceva ancora, "un quartiere satellite le cui caratteristiche non saranno semplicemente quelle di dormitorio umano privo di vita e quindi di interesse, ma un quartiere veramente vitale».
«Rispetto al progetto globale - conclude Benini -, poco o nulla è andato come si sperava e i risultati sono oggi davanti agli occhi di tutti, nella loro disorganica incompletezza, aggravati dal fatto che il nostro gusto (non sempre...) ha superato rapidamente quel modo di costruire "anni ‘60" invecchiato più in fretta di altri...».
«E' stato un male - si interroga Sala -? E' stato un bene? Chi lo sa... Si può forse giudicare se sia cosa migliore stare in Erna con comodo di cinematografo o andare in Erna, sia pure sulla fune, per fare una camminata senza case d'intorno o per spingere il proprio fardello corporeo su due legni lungo una pista innevata e cantare poi in compagnia nel vecchio rifugio del vecchio "Borgo"?»
Dario Cercek
Dario Cercek
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.