SCAFFALE LECCHESE/105: in vetta con le guide di Saglio, ancora 'attuali' nonostante gli anni
Turismo pedestre, era definito negli anni Cinquanta del secolo scorso. Si tratta dell’escursionismo che «dopo aver subito una eclissi nel periodo di entusiasmo dei mezzi meccanici, sta riguadagnando favore (…) anche per reazione contro le artificiali condizioni di vita e di lavoro nei grandi agglomerati urbani, negli uffici e nelle officine». Così l’allora presidente del Touring club italiano Cesare Chiodi nella prefazione alla guida escursionistica delle Prealpi lombarde pubblicata nel 1957 nella collana “Da rifugio a rifugio” promossa in collaborazione tra lo stesso Touring e il Club Alpino.
La guida del 1957 e quella del 1983
A compilarla Silvio Saglio, un’autorità in materia: alle spalle aveva infatti un’esperienza pluridecennale nella produzione di guide escursionistiche e alpinistiche. La cui realizzazione costava un’enorme fatica. Una fatica della quale non ci rendiamo nemmeno conto, oggi che gli scaffali delle librerie sono pieni di tali e tante pubblicazioni, spesso in fotocopia, qualcuna anche approssimativa, confidando sul fatto che ormai sui sentieri si è guidati da una segnaletica presente ovunque. La quale segnaletica, però, ha sovente un che di fantasioso senza stare a contarne la sparizione di certe indicazioni per cause di tempo, maltempo o buontempo.
Nato a Novara nel 1896, ma trapiantato a Milano, Saglio faceva parte, con un ruolo di primissimo piano, di quella Società escursionisti milanesi che aveva aperto rifugi anche sui nostri monti: il Tedeschi al Pialleral e il Cavalletti ai Piani Resinelli, per esempio. Ai Resinelli, tra l’altro, lo stesso Saglio per un periodo fu anche direttore di quel Parco Valentino che tale divenne dopo che, nel 1961, la famiglia Gerosa Crotta donò quell’immensa parte di Coltignone proprio al Touring perché fosse preservata dall’espansione edilizia.
«La grande passione di Silvio Saglio – leggiamo sul sito della Sem – è stata la sua opera di autore, redattore e coordinatore di innumerevoli pubblicazioni, guide e carte toponomastiche. (…) Lavoro di non poco conto se si considera che le sue guide, prima di essere scritte, erano vissute in prima persona, scarpinando in lungo e in largo per le Alpi, con l’ingombrante e pesante attrezzatura fotografica che non dimenticava mai. (…) Queste “sgobbate” duravano talvolta più di un mese e si ripetevano quasi ogni anno».
La guida del 1937 e quella del 1948
Le opere di Saglio sono autentici capolavori, per certi versi ancora utilizzabili, non fosse che qualche sentiero è ormai scomparso, uno o più rifugi non ci sono più e il mondo, insomma, è ben cambiato.
Oltre a “Prealpi lombarde”, Saglio in precedenza aveva realizzato altre guide pubblicate sempre in collaborazione tra Tci e Cai, in quella collana che si chiama “Guida dei monti d’Italia” e che fu passaggio fondamentale in questo genere di pubblicazioni.
Per quanto ci riguarda, quella del 1937 fu la prima autentica guida dedicata alle Grigne ed è volume di 492 pagine che potrebbe sembrare eccessivo – si legge nell’introduzione - «per un ristretto gruppo prealpino di soli 160 chilometri quadrati di superficie (…) ma se si pensa che un torrione di poche decine di metri (e nella Grigna ce ne sono parecchi) ha più itinerari ed è più frequentato di molte celebrate vette di 4000 metri…». E del resto «le Grigne indubbiamente sono le più frequentate montagne della catena alpina; ad esse accorrono numerosi i turisti, a frotte pervengono gli escursionisti, a gruppi vi salgono gli alpinisti, a cordate l’assaltano i rocciatori, isolati la percorrono il cacciatore, il botanico, il geologo»
Delle indicazioni contenute in quelle quasi cinquecento pagine ci soffermiamo sul Caminetto Pagani, uno dei passaggi simbolo del sentiero della Direttissima che il Cai di Milano tracciò per collegare più speditamente i due rifugi di proprietà: il Carlo Porta e la Rosalba: «E’ il tratto più noto del percorso, davanti al quale alcuni rinunciano a proseguire. Il passaggio è invece facile a addomesticato, nel primo tratto si supera la paretina servendosi di arpioni, sicurissimi anche se si muovono, perché infissi nella roccia e quivi trattenuti dal piombo; dopo 8 metri circa ci si sposta a sinistra su un piano con ringhiera e ci si innalza per facili gradini rocciosi verso una scaletta di legno ancorata alla roccia e munita di una corda metallica». Si sarà notata l’accuratezza della descrizione, mentre oggi possiamo cavarcela con «due scalette metalliche che ci permettono di superare due pareti di roccia verticali e ci mettono nel Caminetto Pagani: uno stretto e ombroso intaglio nella roccia che si supera con l’aiuto di un cavo metallico» come scrive una guida del 2015. Si sarà notato anche come Saglio voglia tranquillizzare l’escursionista anziché metterlo in guardia sulla pericolosità come succede invece oggi. Segno che i frequentatori d’un tempo erano più provetti o accorti rispetto a oggi quando in troppi affrontano i sentieri in maniera un po’ sconsiderata? Mah. Non è mica poi detto.
La guida è completata da appendici dedicate alla parte sciistica e alla speleologia con la visita alla ghiaccia di Moncodeno «con le sue bizzarre colonne [che] si alzano per parecchi metri dal suolo, con diametri diversi che vanno dal metro al centimetro», mentre «sulle pareti si sviluppano larghe fasce di ghiaccio a trine e merletti».
Risale invece al 1948 quella dedicata alle “Prealpi comasche, varesine, bergamasche” che «sono giogaie più o meno articolate, si distendono a ridosso della pianura lombarda la quale, con le sue popolose borgate e città, alimenta una cospicua corrente turistica ed alpinistica (…) favorita dalla comodità e rapidità degli approcci [e] trova la sua giustificazione nella straordinaria bellezza della regione: cime dai fianchi morbidi, tempestati di fiori, ricchi di prati, di boschi e di pascoli, ampie vedute di laghi, di valli, di piane e di monti; rocce spolpate, posate su sassose scarpate al limite del faggeto, del castagneto, del lariceto, dell’abetaia» Vi si sale «cantando in liete comitive» ma vi sono pure arrampicate di ogni difficoltà «dalle canne d’organo dei Denti della Vecchia ai lisci dirupi dei Corni di Canzo, dai canaloni del Monte Resegone alle pareti del Pizzo Arera.
In quanto al Resegone, per il quale era ancora praticato il nome di Monte Serada, «la sua fama, dovuta alle descrizioni manzoniane e all’accenno geograficamente inesatto contenuto nella Canzone di Legnano del Carducci, non è da ascrivere solamente ad un fortunato destino, ma è dovuta anche ai propri meriti largiti largamente da madre natura« e costituiti dal magnifico e strano aspetto, dal colorito ora cupo e ora chiaro, dalla sua ubicazione e da alcuni laghi che ne rispecchiano la dentellatura. In quel 1948, inoltre, i segni concreti della guerra erano ancora sotto gli occhi, come testimonia la descrizione del percorso che da Lecco conduce ad Acquate e quindi a Costa e poi in vetta e si passa dal «ripiano su cui sorgeva il Rifugio Stoppani che è stato distrutto per rappresaglia durante la lotta partigiana».
Rispetto alle Grigne, prima della guida pubblicata da Saglio nel 1948 non c’era stato comunque il deserto assoluto, come ricorda lo stesso autore rilevando come la già raccontate «bellezze d’ambiente e la conseguente notevole frequentazione» fin dal 1875 avevano suggerito una guida alpinistica «che fu la prima in Italia»: la “Guida-itinerario alle Prealpi bergamasche compressi i passi alla Valtellina”. Si trattava di un’opera di proporzioni ridotte e che praticamente si esauriva in una serie di escursioni bergamasche. Limitandosi per il Lecchese ad alcune semplici indicazioni in appendice per il Monte Legnone (da Dervio e Introzzo, da Pagnona, da Premana), il Pizzo dei Tre Signori (da Introbio per la Val Biandino passando per la cascata del “Paradiso dei cani” che dovrebbe essere la Troggia), la Grigna Settentrionale (da Pasturo, da Varenna e la bochetta di “Piada” anziché Prada, da Mandello), i Corni di Canzo e il Monte Albenza. Sguardo privilegiato sulla Bergamasca (la Valle di Scalve, la Valle Seriana, la Valle Brembana) non a caso, essendo l’autore l’allora presidente della sezione orobica del Cai, Antonio Curò, ricordato oggi da un rifugio in Valbondione.
Nelle avvertenze iniziali, Curò raccomandava di «munirsi di opportuna borraccia per non patir la sete» se si sceglievano, per effettuare le escursioni, i mesi di luglio e agosto, quando «v’è difetto di sorgenti nelle montagne dolomitiche». E in «quanto agli alberghi e osterie – lato debole di queste nostre vallate – nessuno deve aspettarsi di trovarvi qualche cosa, che assomigli a ciò che è comune in Isvizzera, in alcune valli del Piemonte e nell’Agordino. Se i centri e capoluoghi delle valli offrono discreti alberghi ove, se no il “comfort” si trova almeno il necessario, i paeselli più lontani – salvo alcune lodevoli eccezioni – non posseggono che assai modeste osterie, fornite di pochi letti, per verità comodi e puliti, ma in certe camere, che tutto lasciano a desiderare! Le loro risorse culinarie sono inoltre limitatissime».
Inoltre, «guide nel verso senso della parola, come quelle di Chamonix, Courmayeur, Zermatt, Pontresina, ove il concorso degli alpinisti le ha create non ve ne hanno ancora che pochissime; ma cacciatori, pastori e contrabbandieri, che conoscono ogni piccolo sentiero e tutti i valichi (delle vette sono però, generalmente, meno pratici) ve ne ha in buon numero». Se tutti gli osti potranno indicarne, Curò riporta qualche nome.
La prefazione era di Antonio Stoppani che sappiamo come all’epoca fosse presidente della sezione milanese del Cai. Il nostro abate si raccomandava ai lettori affinché non snobbassero la guida, magari proprio per via delle modeste dimensioni, trattandosi comunque di «un’opera buona» corrispondente «ad un bisogno sentitissimo» Ricordando «quante volte quel tale, ch’io non nomino, dopo aver viaggiato le ore promesse dal primo montanaro che incontrava per via, trovossi più di prima lontano dalla meta. Più di una voltagli accadde, affidandosi alle indicazioni di gente la quale, come in genere i montanari, non ha misura di tempo né di spazio, vide imbrunirsi l’aria tra deserti di rupi, e dovette benedire il lugubre ululato del cane se poté trovarsi nel più fitto della notte alla porta d’una stamberga».
La guida del 1881
C’è comunque un filo che collega questa prima guida a quella che poco più di settant’anni dopo avrebbe realizzato SaglioDopo la prima del 1875, infatti, la guida di Curò ebbe una seconda edizione nel 1888 e una terza nel 1900. Esaurita anche questa – annota Saglio - «la sezione di Bergamo del Cai deliberava nel 1923, la pubblicazione di una nuova opera che però non fu portata a termine. Costituitasi nel 1932, la commissione della Guida dei monti d’Italia del Cai e del Tci, la redazione della guida delle Prealpi lombarde veniva impostata su nuove basi e la compilazione terminata nel giro di pochi anni; la seconda guerra mondiale ne impedì la stampa. In questo secondo dopoguerra venne ripreso il lavoro, ma per ragione di mole e di costo, si dovettero sacrificare alcune parti, scarnire il testo, e omettere la trattazione delle Prealpi Bresciane e Giudicarie». Ne venne appunto la guida del 1948.
Guida del 1983 e del 1986
Negli anni Ottanta, tra l’altro, Touring club e Club alpino si riproposero in accoppiata con una serie di guide “per valli e rifugi” dall’elegante veste grafica anche se dal formato non propriamente tascabile e agli inizi dei Duemila le copertine delle “Nuove guide monti”, pur attenendosi a canoni moderni, sembravano voler richiamare le vecchie e gloriose guide. Ma certe epoche non tornano più. E sfogliare “Le Grigne” del 1937 ci dà ancora emozioni.
Dario Cercek