SCAFFALE LECCHESE/104: i viaggiatori stranieri in visita sul Lago di Como

Naturalmente, il “Grand tour”, per un paio di secoli viaggio di formazione per europei colti (e danarosi) che scendevano in Italia a scoprire tesori d’arte, storia romana, paesaggi indimenticabili e addirittura luoghi non ancora raggiunti dalla civiltà.  Senza trascurare il piacere, parola alla quale ciascuno può dare il contenuto che crede. Ma non solo “grand tour”, naturalmente. Perché il tramonto dei viaggi di formazione non ha infranto il mito. Che permane. Solo che non lo si racconta più.  E’ dunque finita da tempo l’epoca dei diari di viaggio dedicati alle nostre contrade. Fu però stagione prolifica: la bibliografia è ricchissima.
Già questa rubrica si era occupata dell’argomento, trattando del libro che Aroldo Benini e Gianfranco Scotti pubblicarono nel 1996 per Viennepierre e che raccoglieva brani di viaggiatori che avevano visitato il ramo lecchese del lago di Como, ramo che, dal punto di vista turistico, è il “parente povero” di quello comasco «meno frequentato rispetto alle altre parti del lago – scriveva l’inglese Richard Bagot a inizio Novecento – perché, a parte i giardini di villa Giulia (che stanno a Bellagio, ndr),  lungo le sue rive non si trovano luoghi particolari che meritino, e inoltre perché le sue acque possono essere pericolose e spesso le imbarcazioni più piccole rischiano di essere scosse come su un mare in tempesta».



Nel 2002, la Banca popolare di Lecco – già tedesca pur inalberando ancora le vecchie insegne – pubblicava “Su questo lago sublime. Artisti e viaggiatori stranieri sulle rive lariane” affidandone la stampa alla Federico Motta Editore e la cura ad Attilio Brilli, docente universitario e critico letterario, ma soprattutto storico del “Grand tour” e autore di numerosi libri sul viaggio e i viaggiatori. Si tratta di un volume – si legge nella premessa - che «raccoglie una serie di testimonianze di viaggiatori che hanno descritto vari luoghi lariani nel corso dei loro viaggi» escludendo «quegli stranieri – teste coronate, aristocratici, borghesi, scrittori, poeti, musicisti, compositori, uomini di teatro, intellettuali di tutto il mondo – che scelsero il lago di Como, le sue ville e i suoi alberghi per periodi e soggiorni più o meno lunghi» per «seguire lo sguardo mobile e fuggitivo, ma di grande sensibilità percettiva, del viaggiatore, e con esso il suo colpo d’occhio e la sua capacità di cogliere quello che gli antichi chiamavano spirito del luogo»: Stendhal, Percy Bisshe Shelley, Gustave Flaubert, Mark Twain, Hippolyte-Adolphe Taine, Henry Janes, Herman Hesse, Gabriel Faure e altri. Tra cui il già citato Bagot, del quale poco sappiamo e che nel 1905 pubblicò «un agevole e fortunato volume, “The italian lakes”, con le illustrazioni di Ella Du Cane, più volte riedito fino al 1932»: vi indugiamo per via di un’iniziativa editoriale particolare e cioè l’edizione italiana nel 1993 che fu la stessa traduttrice, Carla Pini Ponti , milanese ma con forti legami comaschi, a decidere di pubblicare «privatamente data la passione per il lago che ci viene profusa, le molte curiose, accurate e divertenti notizie, la sorprendente e amara attualità del testo».



I visitatori italiani – ci dice Brilli - dovevano fare i conti con la “memoria” «che inibisce il viaggiatore sensibile e percettivo dinanzi alle rinomate sponde del lago» e rinomate soprattutto per le descrizioni manzoniane, così che Ippolito Nievo parlava della «strada che traversa la scena dei “Promessi sposi” e questa scena, bisogna dirlo, è proprio stupenda più a vederla che a leggerla», mentre Iginio Ugo Tarchetti annotava che «poco lungi da noi scorreva lo stesso (sic) Adda, e in faccia ci stava lo stesso Resegone colla sua vetta crestata, addentellata come l’enorme mascella fossile di un mostro antidiluviano. Pescarenico, quel piccolo gruppo di catapecchie e di stamberghe tutte coperte di reti e di cenci d’ogni colore posti fuori a sciorinare, ci stava pure lì presso; non mancavano a compiere il quadro che un Renzo e una Lucia, quei due amanti sì freddi e pure sì veri, sì veri e pure sì poco verisimili in quella classe povera e dimenticata del popolo».



Dunque, osserva Brilli, «la memoria del lago continua a identificarsi innanzi tutto con la tradizione letteraria che l’ha reso famoso». Mentre «come spesso succede, lo sguardo del forestiero di genio ha caratteristiche molto diverse rispetto a coloro che hanno familiarità con un luogo o ne sono addirittura nativi. Esso ha, malgrado l’attrazione istintiva del posto o l’afflato di affinità misteriose, una capacità straniante che gli permette di coglierne l’essenza. E’ il caso tipico di Stendhal che offre al lettore una duplice e complementare prospettiva del lago di Como, ora in veste di viaggiatore consapevole della rinomanza del sito (…), ora come narratore che nella “Certosa di Parma” enumera le lusinghe di “questo lago sublime”». E «quelli che emergono sono elementi volti a fare del lago di Como e del suo circondario un esempio di paesaggio ideale, un paesaggio perfetto sul quale commisurare il resto del mondo e dalla cui contemplazione distillare la propria felicità».
E’ nel corso dell’Ottocento, tra l’altro, che avviene la mutazione sociale tra i frequentatori del lago: «Ludovico di Breme annota di aver vissuto parecchie settimane nei dintorni del Lario, in paesi che sono un continuo andirivieni di individui d’ogni genere e d’ogni risma, di spioni, di profughi, di informatori, di pennivendoli, di doganieri, di vagabondi, di contrabbandieri, di curiosi». Che è natura è fascino dei «luoghi di passo» come li definisce Brilli, vale a dire i luoghi di confine. Come lo fu Lecco tra Milano a Venezia nel Seicento “manzoniano” e come sono ancora Como e la riviera occidentale lariana tra Italia e Svizzera, condizione che nel corso del Novecento ha condizionato destini e alimentato mitologie. Per quanto «sulla soglia del XX secolo», Emilio De Marchi sottolineasse «il radicale mutamento intervenuto tra gli ospiti del lago, affermando che ormai sulle banchine del porto è un continuo andirivieni di personaggi d’ogni estrazione: dal barcaiolo al pescatore, al sonatore d’organetto, al venditore di dolci, al negoziante, al ricco borghese, al grasso industriale, al banchiere, alla contessa, al lord inglese, insomma “un confondersi confidente di tutte le classi sociali”».



E’ del 2006, invece, “Quel ramo del lago… Le vie del Lario e del Verbano nel Romanticismo lombardo e oltre” curato da Mirko Volpi e pubblicato dal Centro nazionale di studi manzoniani e che è raccolta differente: dopo averci presentato alcuni “antichi descrittori” (Paolo Giovio e Sigismondo Boldoni, per esempio)  ci offre brani di “guide pittoresche” compilate tra la fine del Settecento e il  1876 con il “Bel Paese” del nostro Stoppani (ci sono i Cantù, Giovanni Battista Giovio, Andrea Luigi Apostolo) e e di “scrittori sulle rive”: da Carlo Porta a Tommaso Grossi, ancora Cesare Cantù e poi il perledese ormai dimenticato Paolo Fumeo.
Più recente è il “Viaggio al Lago di Como. Letterati e viaggiatori dell’Ottocento sul lago” edito nel 2020 dal Centro interunivesitario di ricerche sul “Viaggio in Italia” che ha sede a Moncalieri, libro curato dal lecchese Pietro Dettamanti. Oltre a Stendhal, Flaubert e Twain, il libro di Dettamanti si sofferma anche sul drammaturgo August Strindberg, sullo scrittore Edward Lear e sul compositore Franz Liszt. Volendo offrire «alcuni elementi per poter cogliere il delinearsi e il consolidarsi lungo tutto il corso del secolo di un vero e proprio “mito” del Lario. Ci riferiamo a quel particolare modo di vivere e di sentire il paesaggio del lago che viene a definirsi in un arco di tempo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento e che segna una netta rottura rispetto all’approccio prevalentemente di carattere naturalistico o erudito» e ora invece «basato sull’emozione e sul sentimento, in un’intima sintonia tra la natura e l’animo dell’osservatore, si fisserà lungo tutto il corso del secolo in una serie di temi e di immagini ricorrenti, destinati a divenire col trascorrere del tempo dei veri e propri “topoi”». Peccato, nel libro di Dettamanti, la mancata traduzione in Italiano dei brani in lingua francese.



Non solo parole comunque. Non manca, infatti, il corredo iconografico essendo la pittura un’altra forma di raccontare il lago che «rappresenta – scrive Dettamanti – uno dei luoghi privilegiati di questa stagione culturale: nelle sue acque pacate il viaggiatore romantico poteva vedere riflessa come in uno specchio la propria immagine più vera e trovare un lenimento alle inquietudini dell’animo».
Del resto per Stendhal – suo, tra l’altro, il concetto di “lago sublime” - si tratta del «più bel paesaggio che esista al mondo», mentre la scrittrice inglese Sidney Owenson Morgan parla di eden lombardo, nonostante «un senso di desolazione, di silenzio, di tristezza e di isolamento che è singolarmente commovente». Da parte sua, il poeta francese Gustave Flaubert, guardando da Bellagio i “tre laghi” pensa che «si vorrebbe vivere qui e morirvi» . Secondo Maurice Barrés «si potrebbe scrivere otto o quindici volumi, più ampi dei famosi romanzi a puntate dei “Mystères de Paris” di Eugène Sue, più lunghi, ma anche più appassionanti: “Il romanzo del lago di Como”».
In quanto alle mete, all’incanto degli sguardi, alle visite e alle escursioni, noialtri che questa bellezza viviamo quotidianamente non abbiam bisogni di troppi elenchi: le ville le montagne qui incombenti e là dolci, gli Orridi, la magia del Fiumelatte o della Fonte Pliniana.
Lecco, «un tempo castello fortificato è oggi un paese di un certo livello per la popolazione, il commercio, le fabbriche. Un torrente che scende in questo borgo fa muovere centoventi mulini che per la maggior parte servono a fabbriche di seta, a delle forge», mentre nel 1836 Philipp von Körber: «Un osservatore attento (…) non potrà non concordare sul fatto che Lecco, con il tempo, diventerà una delle città commerciali più popolose e prestigiose della zona».



Qualche cenno sull’ospitalità non proprio perfetta: se Edward Lear scrive che «non c’ alcun modo per esprimere lo spavento che si prova – la prima volta – nelle locande di campagna (…) e non ci vuole molto ad abituarsi alla gente che ti serve a piedi scalzi», John Barrow ricorda che «giunti a Lecco facemmo una sosta di un paio di ore, ordinammo il pranzo e non avemmo nulla da ridire sulla cucina. Anzi il pranzo era eccellente e venne servito con grande cura. Il conto però risultò particolarmente salato» nella «locanda che mi sembra si chiamasse “La Posta”»
Lo stesso Lear annota che «gli abitanti della provincia di Como sono poveri ma onesti», mentre Sydney Morgan è quasio caustica: I comaschi sono di fattezze assai brutte e hanno un’espressione triste sul volto che è probabilmente un riflesso delle loro menti ottenebrate dalle terribili immagini di morte che i preti hanno moltiplicato in ogni dove». E, del resto, scrive Twain: «Ci trovavamo nel regno dei preti, una terra dove una beata, gioiosa, appagata ignoranza si mescola alla superstizione, alla degradazione, alla povertà all’indolenza, a un’eterna inutilità soddisfatta di se stessa. Eravamo convinti che tutto ciò ben si adattava alla gente del luogo che viveva di niente con gli animali, certa che il cielo la proteggesse da ogni avversità». Così, per Giovan Battista Carta, le donne di Gravedona «si vestono in maniera singolare. Due secoli or sono venne a predicare a Gravedona un monaco che convinse gli abitanti del posto a indossare l’abito dell’ordine di Santa Rosalia (…) una specie di saio dei cappuccini». Malgrado il quale «le donne giovani e quelle ricche fanno risalire le loro forme delicate». Non sappiamo se il monaco sia davvero esistito e si sia prodotto in tale opera di convincimento. Sappiamo invece che per molti secoli gli abitanti dell’Alto Lario emigravano alla ricerca di fortuna in Sicilia e in particolare nella capitale Palermo, cosa che del resto facevano anche i montanari delle povere valli svizzere. Altri tempi. Fatto sta che tornando a casa, gli emigranti si sono portati appresso anche il culto di santa Rosalia. In Alto Lario venerata ancora oggi.



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Dario Cercek
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