SCAFFALE LECCHESE/101: le poesie milanesi di Grossi e il... linciaggio di Prina

«L’era una nocc di pù indiavolaa/ Scur comè in bocca al lôff: no se sentiva/ Ona pedanna, on moviment, on fiaa/ Ch’el dass indizi de persona viva:/ Domà che on can de malarbetta sort/ El faseva al versari de la mort». In tale cupa atmosfera, un viandante «soll solett» percorreva la Comasina verso Milano, allungando un po’ il passo perché «a parlà ciar quell can el m’aveva mettuu on poo de spaghett». Sennonché, giunto al cancello di un cimitero proprio mentre un orologio suonava la mezzanotte, si sentì chiamare: «”Don Rocch! Ch’el venga chì!”/ Quand che mì senti a proferì Don Rocch,/ Chè Don Rocch l’è mò giust el nomm de mi,/ Me se scuriss i oeucc, me casca i brasc, / E borli in terra comè on omm de strasc».
Così inizia una delle più celebri poesie dialettali di Tommaso Grossi, del quale il “don Rocch” sarebbe l’alter ego in un inquietante sogno in cui il poeta incontra nientemeno che il fantasma del conte Giuseppe Prina, il ministro delle finanze e quindi delle tasse del napoleonico Regno d’Italia che il 20 aprile 1814 venne linciato dalla folla.
L’episodio è noto: tra le pagine nere del Risorgimento milanese, lasciò a lungo un segno profondo. Lo stesso Alessandro Manzoni ne ebbe raccapriccio e c’è chi vuole addebitare a quegli eventi le celeberrime nevrosi dello scrittore. A quei tumulti, comunque, Manzoni attinse per descrivere nei “Promessi sposi” la celebre rivolta per il pane nella quale resta coinvolto anche uno sconsiderato Renzo. Del resto, lo stesso scrittore pare sudasse un po’ freddo per il timore d’essere in qualche modo tirato in ballo. Per via di certe prese di posizione politiche e di frequentazioni non proprio al di sopra di ogni sospetto, a partire dall’amicizia con Federico Confalonieri che ancora oggi non è del tutto chiaro quale ruolo abbia avuto nella sollevazione della piazza.



In quelle ore tumultuose avvenne ciò che avviene sempre in certi momenti di trapasso. E nel caos, una folla inferocita diede l’assalto alla casa del conte Prina facendo scempio dell’una e dell’altro.
Nemmeno due anni dopo, negli ultimi mesi del 1815 o nei primi del 1816, il ricordo di quegli eventi veniva ravvivato da una poesia manoscritta che circolava clandestinamente per Milano: appunto il racconto del “don Rocco” avvicinato dal fantasma del Prina, il quale chiedeva come stessero i milanesi e cosa fosse cambiato dal giorno del suo linciaggio. Se, insomma, fosse valsa la pena di tanto orrore: «Cossa l’ha quistaa Milan coll’avemm coppaa mì pesc che né on can», cos’ha guadagnato Milano con l’avermi ammazzato peggio che neanche un cane?
Proprio un bel guadagno, è la replica del nostro viandante, con questi «patatôcch» che sono gli austriaci, i quali «han tolt su la scoeura, no podendes fa intend col so zorôcch, de parlà italian con la niscioeura» e cioè che, non potendo farsi intendere con il loro tedesco, han ben pensato di parlare italiano con il bastone, linguaggio che conoscono per pratica, e che non richiede grammatica. E ancora, che Milano è tutta piena soltanto di fumo, di conti, di cavalieri, di becchi fottuti; che la Ragione ha soffiato sul lume perché volevano prenderla a calci in culo; e il povero Merito, che non ha il titolo di don, me l’hanno costretto in un angolo. Ciononostante si vive contenti per via dell’amore dell’imperatore Francesco che è un galantuomo, dei milanesi che sono buoni quanto lui e che sono incapaci di far del male come lui è incapace di far del bene, «pien fina sora ai oeucc de la virtù/ de la santa pascenza e nun e lù».



Il poemetto dovette avere una non trascurabile diffusione, se mise in allerta anche la polizia asburgica decisa a rintracciarne l’autore, sospettando innanzitutto di un Carlo Porta già ben noto per il suo poetare in dialetto, ma anche di un Carlo Alfonso Pellizzoni, meno noto almeno ai lettori di oggi. Scagionati entrambi proprio dal “nostro” Grossi. Scriveva Ignazio Cantù in “Vita e opere di Tommaso Grossi” che fu la primissima biografia, uscita nel dicembre 1853, pochi giorni dopo la morte del poeta (oggi li chiamiamo instant-book): «Troppo generoso il Grossi volle per sé la solidarietà delle conseguenze: rivelò sé stesso ad un uomo conciliativo che in quei tempi presiedeva il governo Lombardo, il conte di Saurau, e disse: io rivelo la cosa al ministro e interpongo in mio favore l’autorità del magistrato che m’ascolta. Al ministro piacque l’ingenuità; il poeta fu assolto; e l’imperatore individualmente offeso, dichiarò cassata ogni procedura, e non si dovesse tener conto al Grossi di questo fatto né per allora, né pei futuri destini della sua carriera»Però si fece pur sempre un paio di giorni di prigione: «per salvare le apparenze» avrebbe chiosato qualcuno.
Sarà andata così, ma alla vicenda il Grossi dedicherà altri sonetti non propriamente accomodanti. Resta il fatto che il poemetto, lodato perfino da Stendhal («La maggiore satira che mai la letteratura abbia prodotto nell’ultimo secolo»), contribuì alla notorietà dell’ancora giovane letterato. Che nel 1816 aveva 26 anni e non era già quello scrittore di discreto seguito e con un posto riconosciuto nella società dell’epoca, come avrebbe poi certificato Giuseppe Rovani in “Cento anni”, romanzo-affresco di un secolo di storia milanese, nel quale si descrive la «compiacenza letteraria onde oggi esulta il nostro Tommaso Grossi, che siede laggiù, in mezzo a quella schiera numerosa di uomini e donne che gli fanno crocchio intorno, e lo guardano e lo esaminano e lo perlustrano da tutte le parti, per vedere se che ha scritto l’ “Ildegonda”, e in questi giorni ha saputo far versare tante lagrime alle nostre belle impietosite, abbia gli occhi, o il naso, o la bocca diversi da quelli di tutti gli altri. Son tre dì che la novella è uscita e l’edizione è quasi tutta smaltita».
La novella è del 1820 e avvia sostanzialmente la carriera letteraria del poeta bellanese che continua nel 1826 con “I lombardi alla prima crociata” (attraverso l’adattamento di Temistocle Solera, diventerà nel 1843 la celebre opera lirica di Giuseppe Verdi) e arriva nel 1834 al romanzo “Marco Visconti” del quale si è occupato anche lo “Scaffale”, lasciandosi definitivamente alle spalle una breve stagione dialettale dagli esiti però altissimi, scrivendo poesie che hanno rischiato d’andare perdute e che ancora oggi si leggono con piacere.


A quella stagione è dedicato il volumetto “Poesie milanesi” curato da Aurelio Sargenti e pubblicato nel 2008 da Interlinea Edizioni: riunisce la produzione dialettale di Grossi, corredata dalle traduzioni e da un esauriente apparato di note e commenti.
E a proposito delle conseguenze giudiziarie della “Prineide”, Sargenti ci dice: dopo le indagini su Porta e Pellizzoni, «forse per la scarsa conoscenza che ancora si aveva della sua attività di poeta in dialetto» solo nel gennaio 1817, le autorità austriache giunsero «al Grossi, il quale (…) se la cavò con un paio di giorni di carcere (24-26 gennaio) e una buona dose di spavento, sufficienti comunque per ricondurlo a un atteggiamento di maggior riserbo nei confronti del governo». Senza metterci una pietra sopra, per la verità. Visto che consegnò le riflessioni su quei giorni alla poesia “La ballografia” nella quale il propagarsi incontrollato delle notizie viene paragonato alla valanga originata da un semplice fiocco di neve e che – ci traduce Sargenti - «con più cresce e diventa pesante più rotola giù maledettamente, allo stesso modo le chiacchiere quando sono proprio strampalate, quanto più sono straordinarie, proprio per questo corrono e si diffondono più in fretta. (…) Noi a questa specie di mercanzia diamo comunemente il nome di balla e chiamano scuola di ballografia caffè, teatri, corsi, conversazioni, dove le balle si trasformano in palloni». Ma anche con parole che dir caustiche è forse poco nei confronti dei funzionari di polizia che lo interrogarono: «Signor consigliere – leggiamo la traduzione – (…) le chiedo centomila perdoni per quelle sestine razza di cane che ho fatto. E’ ben vero che non ha ragione (…) di darmi del disperato, del viso di cazzo, dell’asino, del birbante. Quella cosa lì è tutta bontà sua! Ma la cosa che non ho mai capito (…) è che io abbia tolto credito al paese. Che credito deve avere, cristo maria!, un luogo (un paese) dove è nato e aumentato di peso (cioè cresciuto) un coglione come vossignoria?». E, ancora, concludendo un altro sonetto, rivolto allo stesso o a un altro funzionario: «Vedendem tutt pensos, che stava là/ In canton col coo bass, cont i spall strett/ L’ha creduu che volzass neanch a fiadà:/ Per la soa faccia né? Oh poverett!/ Saal cossa l’è che seva adree a pensà?/ Pensava a mett insemma sto Sonett».
Vero che queste righe non erano destinate alla diffusione, ma erano confidenze, esercizi di stile, che si scambiava quel gruppo di amici che faceva riferimento a Carlo Porta, a casa del quale si radunava un paio di volte alla settimana (la famosa Cameretta) trascorrendo serate tra serietà e facezie e che proprio dopo la “Prineide” divenne appuntamento fisso anche per il Grossi. E «il confronto testuale – ci dice ancora Sargenti – permette di intravedere un rapporto di dare e avere intercorso tra i due poeti assai più “aperto” (…) dal quale risulta come in numerosi casi (…) Grossi preceda Porta».
Ciò sottolinea la necessità di una riscoperta della satira di Tommaso Grossi che non si esaurisce nella “Prineide”.  Come testimoniato proprio da “Poesie milanesi”: per esempio, l’esilarante “I bragh del confessor salven la monega”, versione in dialetto milanese di una novella del Decamerone del Boccaccio, o il “Lament d’on impiegaa de Finanza” per l’infima paga: «Son Cuntabil de Finanza,/ Gh’hoo on register in di man,/ E là vedi in abondanza/ I danee che gh’ha al Sovran. (…) Ma per mì. Pover sonaj,/ No me resta che ‘l mestee/ De vedej e de cuntaj/ In sui liber, sui palpee».


L'apparizione del fantasma di Prina

Se ci siamo soffermati sul poemetto incriminato è per i contorni quasi romanzeschi dell’intera vicenda principiata nel tardo pomeriggio del 20 aprile 1814, quando sulla folla certo animata e animosa calò l’infausto incitamento - «Alla casa del Prina» - che scatenò la ferocia della quale Milano coltivò poi un cupo rimorso. Se anche il don Rocco augura al fantasma del ministro «che quell fôi de gatt ch’el l’ha sbertij el ghe poda quistà el ciel», che quella fine terribile gli faccia conquistare il paradiso.
C’è un prezioso volumetto che ci porta dentro l’intera storia: “Prineide. La tragica fine di un ministro delle finanze”, pubblicato nel 1996 dalla stessa “Interlinea Edizioni”. E non per caso, essendo la casa editrice di Novara, città d’origine dello stesso ministro Prina.



Sono raccolti, oltre al pometto del Grossi, il capitolo dei “Cento anni” che Rovani dedica al linciaggio: «…ebbe fracassata la testa, vuotata una occhiaja, sfiancate le reni – e qui spirò. Il cadavere fu preda della bordaglia inferocita per altre quattr’ore, Nelle vie per dove esso veniva trascinato, le donne che s’affacciavano esterrefatte cadevano svenute»; il quarto atto del dramma “Il ministro Prina” scritto da Giovanni Biffi e rappresentato per la prima volta nel 1867: «Prina, fuggite, fuggite… “Fuggire Prina? Io fuggire? I saria nen piemonteis!” (Si appoggia col gomito sullo scrittojo e fissa risoluto lo sguardo verso la porta, che traballa per l’urto dei tumultuanti, i quali innalzando grida di morte, stanno per irrompere)». E anche un saggio di Leonardo Sciascia: «L’ufficio del Prina lungamente era stato quello di escogitare ed esigere tasse per l’inesausto guerreggiare di Napoleone. Ma a parte il fatto che quelle tasse erano il prezzo di germoglianti ideali e che in qualche misura venivano restituite alla pubblica utilità, c’è da dire che il Prina coltivava l’utopia  di far pagare le tasse a chi doveva pagarle forse a prescindere dalle esigenze di Napoleone e del suo guerreggiare: commovente utopia, nel nostro paese; e fino ai giorni nostri (e se mi è permessa una intrusione: sedendo qualche anno fa in parlamento, mi era di conforto veder quasi aleggiare una simile utopia nello sguardo di Reviglio, allora ministro delle finanze».



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Dario Cercek
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