SCAFFALE LECCHESE/95: le acque minerali e le loro fonti tra libri e guide
«Eureka! Acqua che puzza vuol dire acqua salubre». Antonio Ghislanzoni non poteva mancare di far dell’ironia, mettendo tali parole in bocca a «un colono assetato [che] curvandosi per bere a una sorgente smarrita fra gli arbusti, avvertì con disgusto che quell’acqua puzzava maledettamente di uova fracide». Così sarebbe avvenuta, nel 1850, la scoperta di quella che sarebbe diventata la Fonte della Salute a Barco di Maggianico. Per un certo periodo, nella seconda metà dell’Ottocento, avrebbe anche alimentato una vera e propria attività termale peraltro valorizzata dallo stesso padre del giornalista e librettista, il dottor Giovanni Battista Ghislanzoni, «medico direttore dell’Ospitale di Lecco». Sua una “Nuova guida pratica alla fonte dell’acqua minerale solforoso-salina di Barco”, stampata dalla bergamasca Tipografia Mazzoleni nel 1855.
L’una e l’altra fonte sono ormai un ricordo. Di quella della Salute a Barco si è ormai quasi persa traccia. Se negli anni degli ormai leggendari fasti della Scapigliatura di Maggianico, l’albergo Davide prosperò anche per il vicino stabilimento termale, da tempo immemore la fonte è inglobata nel recinto di un complesso religioso e praticamente inaccessibile. In internet circola qualche foto ormai datata della sorgente vegliata da una madonnina. Tra l’altro, pure il convento di suore che in quel luogo aveva trovato posto è stato soppresso nel 2015
Per Tartavalle, periodicamente spunta l’idea di un qualche recupero che in verità appare più che improbabile. Il vecchio albergo, in un modo o l’altro, ha resistito fino agli anni Ottanta del Novecento (ma gli ultimi ospiti erano quelli di una comunità di recupero per tossicodipendenti che aveva utilizzato la struttura per nemmeno molti anni), mentre l’attività termale era cessata ormai da tempo. In anni recenti una società privata aveva tentato la strada della produzione di birra, ma senza fortuna. E così, l’albergo è un palazzo sprangato e le vecchie strutture termali sono fatiscenti. Insomma, una storia passata.
Eppure fu vera gloria. Se si pensa che quando nel 1892 la linea ferroviaria arrivò a Bellano, alla stazione si volle aggiungere anche il nome di Tartavalle Terme che era richiamo per molti villeggianti milanesi i quali avrebbero poi raggiunto Taceno lungo una mulattiera più tardi diventata una vera e propria strada (e che poi era l’antico tracciato di collegamento tra Colico e Lecco, quello dei lanzichenecchi manzoniani, per intenderci).
Lo stesso Arrigoni, nella sua guida, si soffermava sul problema dei collegamenti con risorgimentale afflato: «Quanto dovette penare per sempre delusa aspettazione questa povera valle sotto l’esoso cacciato Governo (…) il quale, non contento di averla spogliata di ogni cosa, non la compensò neppure della reclamata costruzione di un tronco di strada. Sicché, da favorevole che era la valle ed affezionata alla Casa d’Austria, divenne alla fine avversa. (…) Ma io devo parlare dell’acqua minerale e di una comoda strada carreggiabile, che il Governo Italico farà eseguire, ne sono sicuro. Ed allora si potrà dalla Capitale Insubre andare alle acque di Taceno, ed esserne di ritorno lo stesso giorno. (…) Due sono le vie che conducono alle acque di Taceno, una da Bellano e l’altra da Lecco. Erta è la prima, disastrosa, in qualche posto non pur cavalcabile, di sole due ore di viaggio. E’ la seconda praticabile con piccole carrozze, lunga geografiche miglia tredici, dilettevole e pittoresca».Ma, appunto, dobbiamo occuparci delle acque minerali.
Da parte sua, l’Arrigoni ci racconta come, una volta scoperti gli effetti curativi, la fonte richiamasse fin da subito «un numero di concorrenti che maggiore non si sarebbe potuto aspettare», alcuni che si trattenevano a lungo e altri che venivano semplicemente a riempir d’acqua le bottiglie, mentre il proprietario Antonio Fondra eresse «un caseggiato decente e capace ad uso di albergo».
In quanto all’acqua, scaturisce da due sorgenti, è limpida e incolore «ma all’aria si copre di una pellicola cangiante opalino-cerulea» e «lascia un sedimento rossastro», ha temperatura costante sui 7 od 8 gradi, «odore disaggredevole naturalmente di uova fracide, sapore tendente a quello dell’inchiostro non però disgustoso» e presenta «qualche bollicina gazosa», per composizione si avvicina «a quella della celebratissima fonte di Sedlitiz in Boemia» e può essere surrogata o anteposta a quella di Santa Caterina, San Pellegrino, Recoaro e Sant’Omobono. Insomma, chapeau.
C’è poi l’aspetto medico: facilita la digestione, accresce l’appetito, aumenta la diuresi e a maggiori dosi muove «l’alvo senza produrre sintomi molesti. E poi indicata per tutta un’altra serie di patologie: dalla gastroenterite alla cistite, dalle coliche nefritiche agli sconcerti delle mestruazioni e via elencando, senza dimenticare melanconia e ipocondria.
«Molte e molte storie raccontate dai medici – scrive l’Arrigoni –, potrei qui riportare di malattie ribelli e credute incurabili, le quali furono vinte mediante l’uso di queste acque».Al momento della stesura della guida, la località sta ormai diventando celebre: «Ora il proprietario ha coperto la prima fonte con una tettoia sostenuta da colonne di legno e vi ha fatto una sala con panche all’ingiro. (…) Ma è auspicabile che vengano ridotte in buone case dei rozzi casolari» e, giustappunto, «sia resa più comoda ai ruotanti la strada».
Se Giuseppe Arrigoni è un ingegnere e parla quindi di strade e dello sviluppo turistico della valle descrivendone alcune caratteristiche, dalle montagne irte e brulle ai paeselli e ai «mille e mille or maestosi, or ridenti colpi di scena», Giovanni Battista Ghislanzoni è invece un medico e dunque, illustrandoci le peculiarità dell’acqua di Barco a Maggianico, guarda soprattutto agli aspetti sanitari. E del resto, scrive la “nuova guida pratica” «per annuire all’eccitamento della Superiorità» che dovrà essere l’incitamento delle autorità, nonché «per norma dei Medici, che intendono mandare con fiducia i loro malati alla sorgente»: si tratta dunque di «un manuale pratico per numerosi concorrenti, mal andati di salute, che qui vengono per migliorare la loro trista condizione».
Il consiglio è di sottoporsi alla cura nel periodo tra maggio e settembre, di bere l’acqua alla fonte e nelle ore del mattino, cominciando con piccole quantità per poi crescere nei giorni successivi per un periodo dalle due alle quattro settimane e considerando inoltre «detestabile l’usanza di berla ai pasti» e «non troppo lodevole continuare la bibita nelle ore vespertine e nella notte».
Dopo qualche regola igienica, il dottor Ghislanzoni elenca le malattie per le quali l’acqua è indicata e quelle per le quali è sconsigliata e in questo caso significa soprattutto che non ci possa affidare all’acqua come fosse cosa miracolosa: «Alcuni cronici giunti al loro ultimo stadio di vita e inchiodati al letto di morte, si fecero portare l’acqua minerale credendola una panacea o rimedio universale a loro mal costo Ma il Volgo è sempre il Volgo nel correre dietro a tutte le novità talvolta anche dannose».
E comunque ci fornisce una serie di casi clinici di malattie croniche per le quali non sembrava esservi rimedio e che invece le cure di Barco hanno guarito in poche settimane. Non miracoli, ma «felici guarigioni».
Ma importanza – osserva ancora – hanno pure «l’aria saluberrima di Barco, sempre ventilata dalle fresche brezze del vicino lago, la vista delle montagne coperte da rigogliosi boschi, le passeggiate a piedi o in cocchio, le gentili conversazioni, l’oblio delle penose cure domestiche» perché «un uomo obbligato o dalla malattia o dai doveri del proprio stato a una vita sedentaria non può che essere oppresso dalla melancolia». Si veda per esempio il caso di «una donna affetta da isterismo, rianimata dalla nuova prospettiva di cielo, colline, di lago, di incantevoli contorni tanto noti per la magica descrizione del Manzoni». Del resto, «le relazioni sociali rianimano il più oppresso ispirandogli la speranza di un miglior avvenire».
Poté più il riposo che l’acqua, vien da pensare, supponendo malanni che oggi classificheremmo come psicosomatici se non dovuti al logorio della vita moderna, per usare un vecchio slogan d’altra bevanda.
Si trattava del resto di pensiero comune tra i medici se anche il Capsoni osservava che «il togliersi a serie occupazioni mentali, il divagarsi con letture leggieri, un moderato moto che può farsi in queste località sia al piano che tra i monti, sempre per ombrosi sentieri, sia sul lago, tutto gioverà al migliore operare dell’acqua minerale».
Sia Tartavalle, come abbiamo visto, che l’acqua di Barco («simile a quella che nel versante orientale dello stesso monte, costituisce la nota e celebrata fonte d’acqua minerale pur solforosa di Sant’Omobono in Valle Imagna») compaiono nella Guida redatta da Giovanni Capsoni. Ma non solo. Nel catalogo delle 19 località catalogate tra Lombardia e Veneto ben cinque sono lecchesi e sarà più questione di consuetudini personali che di un censimento scientifico. Sono infatti segnalate anche una fonte a Bonzeno sopra Bellano con acqua «analoga a quella non molto lontana di Tartavalle», l’Acqua della Cornasca a Varenna tra la galleria Morcote e quella di Bellano, le sorgenti della Cestaglia a Regoledo dove proprio nel 1852 venivano aperti uno stabilimento idroterapico e il Grand Hotel.
Una stagione di glorie ormai passate. Già nel 1936, la “Guida pratica ai luoghi di soggiorno e di cura d’Italia” pubblicata dal Touring club italiano annoverava le sole terme di Tartavalle.
Inoltre, a quelle citate «si devono aggiungere – scriveva l’Arrigoni nel 1848 – le acque del Caldone nel terrutorio di Lecco, le quali nel secolo scorso si usarono con qualche vantaggio nelle dissenterie, nei calcoli, nella debolezza del ventricolo e vennero suggerite nei bagni, come si può vedere nell’opuscolo “De Aquis mineralibus Coldoni” del conte Roncalli Parolino». Si tratta di Francesco Roncalli, medico e poeta bresciano ma con soggiorni valsassinesi nel palazzo degli avi materni, i Parolini di Barcone, e che dedicò non poco tempo allo studio delle acque. Dell’opuscolo ha scritto nel 2007 sulla rivista “Archivi di Lecco” lo storico Mauro Mazzucotelli che registra come «non resistette a lungo la fama terapeutica del Caldone. Col passare del tempo l’uso medicinale dell’acqua del Caldone cadde in disuso.
Qualche decennio dopo la pubblicazione del saggio roncalliano un altro medico, buon conoscitore dell’idrologia e della chimica, Domenico Vandelli, in una ricognizione naturalistica nel territorio lecchese (…) da buon chimico sottopose l’acqua alle comuni reazioni analitiche per valutare la composizione e concluse demolendo tutte le ipotesi del Roncalli e dei medici che l’avevano preceduto».
I quali avevano raccolto probabilmente una sorta di leggenda, forse la stessa giunta alle orecchie del viceprefetto Giovanni Tamassia che nel 1806 annotava come in passato (fino al XVI secolo) le acque del Caldone fossero state calde, spiegandosi così lo stesso nome del torrente…
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Dario Cercek