SCAFFALE LECCHESE/88: nel libro di Spreafico, finalmente giustizia per Claudio Corti

Nello stesso anno in cui si arrivava alla celebre riabilitazione di Walter Bonatti per l'impresa del K2, un'altra riabilitazione dall'eco minore si andava compiendo. L'anno era il 2008 e il Cai pubblicava la relazione del comitato di saggi che ristabiliva la verità sulla conquista della vetta himalayana nel 1954 restituendo quanto dovuto a Bonatti, tre anni prima della morte del grande alpinista.

 

Ed era il 2008, quando un libro sollecitava l'alpinismo lecchese a fare i conti con la vicenda del "ragno" Claudio Corti e della tragica scalata dell'agosto 1957 sulla Parete Nord delL'Eiger nell'Oberland Bernese: tre morti e un unico sopravvissuto, appunto Corti. Per il quale, come spesso accade, la sopravvivenza si trasforma in una colpa. Fu vicenda per giorni alla ribalta internazionale, con feroci polemiche transfrontaliere che solo il trascorrere del tempo avrebbe attenuato, Riducendo il caso a storia minore, a un affare confinato al mondo alpinistico lecchese nelle cui vene però certo veleno ha continuato a circolare per oltre mezzo secolo.
In quel 2008, fu un libro del giornalista lecchese Giorgio Spreafico e pubblicato per la casa editrice Stefanoni, a riproporre quella vicenda: "Il prigioniero dell'Eiger. Parete Nord, agosto 1957: la verità. Claudio Corti racconta un'odissea lunga cinquant'anni".
Di quella storia si era già parlato in altri libri. In particolare in un lavoro del 1962 a opera del giornalista americano Jack Olsen, "Arrampicarsi all'inferno. Tragedia sull'Eiger" pubblicato in Italia da Longanesi quale terzo titolo di una collana sportiva diretta da Gianni Brera. Successivamente venne riproposto nel 1999 da Cda (Centro di documentazione alpina) e nel 2005 da Cda-Vivalda con una prefazione di Mirella Tenderini, scrittrice ed editor ormai naturalizzata lecchese per essere venuta ad abitare a Ballabio, già sulla soglia di Piani Resinelli. E' del 2007, invece "Morte sull'Eiger. Il dramma di Claudio Corti e Stefano Longhi" curato da Daniel Anker, Giovanni Capra e Rainer Rettner, pubblicato da "Corbaccio": i testi non mancano, ma è soprattutto un libro fotografico con gli scatti, tra gli altri, del bernese Albert Winkler che documentò le operazioni di salvataggio.
La storia è questa. Claudio Corti, all'epoca 29 anni e già maglione rosso dei Ragni, vuole tentare la prima italiana sulla Parete Nord dell'Eiger, che se «è stato vinto più volte - parole di Brera - non meno frequentemente ha ucciso. (...) Non è grande impresa dal punto di vista tecnico», ma per via del clima e di scariche di sassi e ghiaccio «è solo un rischio folle, un azzardo. L'alpinista diventa un croupier di sé stesso. O azzecca l'en plein o è spacciato. Ma quanto fascino in quel cupio dissolvi di chi si ritiene dotato di ali».
«Dicono tutti che è una roba da non fare - è l'incipit di Spreafico - che è troppo complicata e pericolosa: mica per niente in un bel po' ci sono anche rimasti. Dicono così. Che forse c'è persino una maledizione, pensa te. Che questa qui non è una parete per gli italiani. Insomma, che è meglio girare al largo. Ci si pensa su a vuoto da vent'anni, no? Una ragione allora ci sarà. Per forza».
Quell'idea della prima italiana frulla in testa a molti tra i più forti alpinisti. Si scoprirà che anche Riccardo Cassin e Carlo Mauri si stavano attrezzando proprio per quell'estate del 1957. Corti tenta il colpo e trova in Stefano Longhi, 44 anni, il compagno d'avventura. Decidono di provarci. Naturalmente acqua in bocca: «Non gliel'abbiamo mica detto, che venivamo qui. Abbiamo cacciato un sacco di balle, proprio un sacco». Zitti anche davanti a Cassin: «Forse ha capito tutto (...) perché solo tre giorni prima di partire sono andato da lui a comprare i chiodi da ghiaccio che ci servivano. Cosa ci fa uno, alla fine di luglio, con dei chiodi da ghiaccio? Eh, cos'è che ci fa? Ci fa una salita con di mezzo il ghiaccio, mica il Campanil Basso di sicuro. E uno che ha raccontato che voleva provare l'Eiger, allora lui con certi chiodi dov'è che va? Non devi mica essere un genio per fare uno più uno: va sull'Eiger, quello lì, ecco dove va. Non mi ha detto niente, però, il Riccardo. E io, neanche io ho detto niente a lui. Non volevo mettermi a raccontargli la rava e la fava».

Il salvataggio di Claudio Corti

Il 30 luglio Corti e Longhi partono da Lecco. In treno, naturalmente. Soltanto qualche amico fidato sa del loro obiettivo. Il 3 agosto attaccano la parete. Perdono del tempo per un errore di direzione e poi riprendono la giusta via. Il 5 agosto, i lecchesi sono raggiunti da due tedeschi che avevano avuto la stessa idea: Günter Nortdurft e Franz Mayer. Nella notte Nortdurft perde il sacco con tutti i viveri, parte dell'attrezzatura e i ramponi. Intanto, il meteo vira al brutto. Il giorno successivo, lo stesso alpinista tedesco comincia a stare male. La salita si fa faticosa. A valle c'è qualcuno che li tiene d'occhio e dà la prima allerta ai soccorsi. Venerdì 9 agosto, Stefano Longhi precipita lungo un traverso, si salva ma i compagni non possono soccorrerlo. La scelta è di arrivare presto in cima e poi scendere a cercare i soccorsi. Poco dopo, però, anche Corti viene colpito da una pietra e vola per una trentina di metri: è costretto a fermarsi. Continuano i due tedeschi che sono praticamente risucchiati dalla montagna: spariscono nel nulla. I loro corpi saranno ritrovati solo quattro anni dopo. La mattina dell'11 agosto le squadre di soccorso sono in vetta: l'alpinista bavarese Alfred Hellepart si cala per 320 metri, recupera un Corti ormai in delirio e se lo carica in spalla. Di quel momento c'è una foto iconica, una foto appunto scattata da Winkler che fa il giro del mondo: «Per la prima volta - chiosa Anker - qualcuno veniva salvato sulla maledetta Parete Nord dell'Eiger». Raggiungere Longhi è più difficile e si rinvia il recupero all'indomani, ma l'alpinista lecchese non sopravvive alla notte. Mentre Corti, dopo un breve ricovero all'ospedale di Interlaken, il 15 agosto può tornare in Italia, il corpo di Longhi resterà appeso alla parete per due anni, diventando quasi un'attrazione per i turisti del macabro che dal rifugio scrutano la parete con i cannocchiali a monetina. Sarà recuperato solo il 9 luglio 1959.

Le persone che assistono alle operazioni. A destra la parete nord dell'Eiger

Le operazioni di soccorso, del resto, sono quello che oggi si chiamerebbe un evento mediatico. «Se già a quell'epoca - scrive lo stesso Anker - la televisione avesse potuto trasmettere da un luogo così difficilmente raggiungibile, il salvataggio sarebbe avvenuto in diretta Tv. La radio permise già allora di partecipare all'evento nel momento in cui si svolgeva» mentre «i quotidiani dei Paesi dell'arco alpino - dice Tenderini - tennero milioni di persone con il fiato sospeso e l'attenzione concentrata sulla parete nord dell'Eiger».
Seguono le polemiche. Virulente. Feroci. Contro Claudio Corti. Del quale si dice di tutto. L'apprezzamento più delicato è che sia uno sconsiderato, che abbia trascinato con sé e quindi alla morte il compagno di cordata impreparato a quell'impresa e che egli stesso non ne fosse all'altezza. Ma quanti sospetti anche sulla sparizione dei due alpinisti tedeschi, sospetti ingigantiti a tal punto da far credere che Corti possa essersene liberato in maniera spregiudicata.
«E' difficile ora - così Mirella Tenderini nel 2005 -, a distanza di lustri, scusare tanto accanimento se non si pensa a quello che aveva significato la Nord dell'Eiger negli anni trenta, alla retorica nazista, a Hitler che si era impegnato ad assegnare (e di fatto assegnò) la medaglie d'oro dei giochi olimpici di Berlino ai primi salitori della parete. E poi, nel 1957 la guerra era già finita da un po', ma non era passato abbastanza tempo perché sedimentassero gli strascichi di sentimenti nazionalisti e, nei tedeschi, un velato disprezzo per gli ex alleati che si erano rivoltati o, dal loro punto di vista, avevano tradito».

Longhi ancora vivo morirà nella notte

Non si tratta di riferimenti fuori luogo. Ecco ciò che racconta Giovanni Capra in "Morte sull'Eiger": «In testa alla cordata degli accusatori comparve nientemeno che Heinrich Harrer, forte del suo prestigio di primo salitore della Nordwand [nel 1938]. In quei giorni Harrer era occupato nella stesura del "Ragno bianco", la dettagliata cronaca della sua vittoriosa ascensione e delle tragedie e dei trionfi consumati sulla parate "assassina". (...) Ancora sei anni fa [quindi nel 2001] Dino Piazza, uno dei più famosi e autorevoli Ragni di Lecco, scrisse una lettera a Heinrich Harrer, per chiedergli quali fosse la ragione di tanto ininterrotto accanimento. Da Harrer non giunse alcuna risposta. (...) Fu l'ansia di gloria e notorietà a spingerlo a tentare la scalata della Nordwand, le stesse motivazioni che lo avevano spinto, nel 1933, a far parte delle SA e dal 1° aprile 1938 delle SS agli ordini di Heinrich Himmler, che sempre in quell'anno fu suo testimone di nozze. (...) Himmler stesso ordinò che Herrer venisse inserito nella spedizione che era in partenza per il Pakistan con il compito di trovare una via di salita per il Nanga Parbat lungo il versante Diamir [nel 1939]. Harrer aveva raggiunto il suo scopo, l'obiettivo più ambito. In quell'occasione cadde prigioniero degli inglesi. (...) Non tornò in Europa fino al 1952. (...) e scrisse il suo famoso "Sette anni in Tibet", un libro che, con l'impresa dell'Eiger, gli portò notorietà e denaro. Si ostinò invece a negare qualsiasi compromissione con il nazismo».
Allora, non è forse un caso che Spreafico, nel raccontare dell'incontro tra le due cordate in parete, scriva: «Tedeschi dunque, sono tedeschi. Ciò che viene subito in mente a Claudio Corti (...) è che lui con gente che parla quella lingua piena di spigoli ha già avuto a che fare. E che la prima volta che l'ha incrociata, nel '43 a Lecco, si è guardato intorno e non ci ha pensato su troppo: ha alzato i tacchi, e di volata».
Anche se è poi un tedesco - Hellepart appunto - a salvare Claudio Corti.

Bisogna arrivare appunto al 1962, quando il libro di Olsen fa giustizia «di ogni indegno sospetto - parole di Brera - Ce n'era bisogno. Specialmente da questa parte delle Alpi. Gli angeli della montagna non sopportano macchia».
Olsen, dunque, ristabilisce una serie di verità su cosa sia successo in quei giorni dell'agosto 1957 sulla parete nord dell'Eiger. Però, su quella parete Claudio Corti resta intrappolato per tutta la vita. Perché, per tutta la vita, è chiamato a raccontare di quei giorni, fornire la sua versione. Una, dieci, cento volte. Restando appunto per tutta la vita «prigioniero dell'Eiger», come recita il titolo di Giorgio Spreafico.
Il libro del giornalista lecchese ha il valore aggiunto dare molto spazio, tutto lo spazio necessario, alle parole e ai ricordi di Corti, presentati nella forma di testimonianze che si alternano alla ricostruzione cronistica. Per noi lecchesi ha un interesse particolare perché ci racconta il mondo alpinistico locale con le sue grandezze e le sue miserie, gli slanci di solidarietà e le rivalità quasi ferine.
Tutto sommato, Lecco ha ancora la mentalità del piccolo borgo, in quell'estate del 1957 quando Corti e Longhi danno l'assalto all'Eiger. Bruciando sul tempo Cassin e Mauri: si spiegherebbe così «la loro freddezza e addirittura la loro ostilità nei confronti di Corti nelle ore del soccorso e tanto più nei giorni successivi» assieme a «un più generico orgoglio lecchese ferito (...) per via del riverbero negativo che un dramma di simile portata avrebbe potuto avere sull'intero ambiente alpinistico di casa».
Oltre quarant'anni prima, Olsen aveva scritto: a Lecco «le polemiche imperversarono violentissime. La città era nettamente divisa in due fazioni. Una parte di quella gente semplice, abituata a lavorare sodo, considerava Corti un grande eroe, un coraggioso che aveva conquistato alla comunità fama internazionale col tentativo di scalare una parete mai prima salita da un italiano. Altri invece asserivano cupamente che era un pazzo, se non addirittura un assassino. Anche il Club alpino si era scisso. Amici di lunga data erano diventati nemici dalla sera alla mattina; erano volati pugni e c'erano state discussioni in cui nessuno si pronunciava in modo chiaro e deciso. (...) Cassin e altri membri chiesero la censura di Conti».

Aria «da resa dei conti finale», scrive Spreafico: a maggioranza, il Cai difende il "prigioniero dell'Eiger" con «Riccardo Cassin, il presidente della sezione, infuriato, deluso, offeso. E alla fine clamorosamente dimissionario. Sconfitto. Corti ferito, travolto da troppe parole, scosso dal dramma e con molti amici in meno, ma anche con qualcosa di fondamentale in più: la certezza di non essere stato abbandonato da tutti. Allora era vero, allora poteva continuare a crederci: essere vivo non era una colpa». Ha continuato ad arrampicare, facendo pure parte della mitica spedizione del 1974 al Cerro Torre sotto la guida di Casimiro Ferrari, è diventato accademico del Cai, ha potuto anche contare su amici veri. Però, i veleni restavano in circolo.
Così che, appunto, nel 2008, Giorgio Spreafico, dopo avere raccolto la lunga testimonianza di Corti, rileva che «mezzo secolo dopo, i conti con quella storia vecchia e complicata, vanno fatti e vanno finalmente fatti fino in fondo» a partire anche dalle assenze: proprio quelle di Mauri e Cassin, per esempio, al momento dei soccorsi, quando «i giganti, nelle opre del dramma, sono stati altri» o quelle dell'alpinismo lecchese in genere per il recupero del corpo di Stefano Longhi riportato a valle sempre da «altri».

«C'è una voce appena sussurrata - conclude Spreafico - Dice che tutta la verità sull'Eiger non la si potrà raccontare finché Re Riccardo sarà regnante Una convinzione che ne ricorda un'altra, circolata a proposito di Ardito Desio (...). L'aggrovigliato "caso K2", naturalmente. In effetti dipanato a fondo dal Club alpino italiano soltanto dopo la morte del leggendario capospedizione (...). Il sussurro lecchese racconta appunto un atteggiamento mentale. E se non gli abbiamo dato retta (...) è stato nella convinzione che quella voce, in realtà, faccia un torto allo storico numero uno dell'alpinismo. Perché Cassin non ha certo il timore delle sue opinioni. Perché lui sui fatti del '57 ha detto e scritto ciò che riteneva di dover dire e scrivere. Perché di sicuro - per citare un minuscolo ma significativo dettaglio - con la sua Irma non avrebbe invitato Claudio Corti alla festa del cinquantesimo di matrimonio, il 20 maggio 1990, se non si fosse ormai considerato in pace con il prigioniero dell'Eiger».
Nel caso di Corti non ci sono commissioni di saggi o relazioni ufficiali, però si capisce che è giunto il momento di voltare finalmente pagina. Per la cronaca, Claudio Corti muore nel 2010 a 81 anni.
E significativo può anche essere che nel 2019 tutta questa storia diventi uno spettacolo teatrale, "Agosto 1957. Eiger; l'ultima salita", con testo dello scrittore Mattia Conti e regia di Alberto Bonacina che lo interpreta con Sara Velardo: a produrlo nel 2019 c'è anche la sezione lecchese del Cai da qualche anno intitolata a Riccardo Cassin, dopo che il "grande vecchio" se ne è andato centenario nel 2009.



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Dario Cercek
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