SCAFFALE LECCHESE/14: i cento anni della 'Mutilati' nel libro di Angelo Faccinetto
E’ una pagina di storia spesso trascurata. Per i motivi più diversi, non ultimo un malcelato imbarazzo. Politico e non solo. Nonostante certa retorica patriottica voglia far credere spesso il contrario, le guerre – tutte le guerre – creano fratture profonde nelle comunità. Ideologiche. Ma non solo: la faglia si allarga anche tra chi sta al fronte e chi no, tra chi indossa la divisa e chi rimane in abiti borghesi. Infine, il ritorno a casa, tanto atteso, spesso ha l’aria di un inciampo, se non di una maledizione. Per un semplice reduce. Figuriamoci per chi testimonia la mattanza con le mutilazioni del corpo. La società chiamata a riaccoglierli, sovente sembra impreparata, tentata di non vedere. Per cattiva o buona coscienza che sia, volge lo sguardo al futuro perché al futuro occorre guardare, dovendosi tutto sommato rimettere in piedi un Paese in macerie. I mutilati, dunque, gli invalidi di guerra: tornati menomati, fanno i conti con una società che sembra voler fare a meno di loro. I meriti, gli onori, le decorazioni vanno bene per le cerimonie, le ricorrenze, le fanfare. Non certo nella quotidianità. Diventano “emergenza sociale” e si sentono trascurati da quello stesso governo che li aveva spediti in prima linea.
La copertina del libro
A raccontarci la storia dell’associazione lecchese è il giornalista Angelo Faccinetto, peraltro figlio di quel Giuseppe che ne è stato il presidente tra il 2012 e il 2016.
Da qualche anno, il sodalizio ha allargato le iscrizioni anche ai famigliari degli invalidi per garantirsi un futuro che naturalmente non potrà che essere diverso, essendo il compito statutario – l’assistenza ai mutilati – destinato a esaurirsi naturalmente, con la scomparsa degli ultimi reduci. Un esaurimento che sarebbe un bene, significa che non ci sono più guerre: lo disse, intervenendo a un’assemblea dei soci, l’allora sindaco Giulio Boscagli (egli pure, figlio di un mutilato dalla vita rocambolesca: di famiglia italiana, arrivò nel nostro Paese da Montecarlo con il nome di Jean Pierre Albert, venne arruolato come Giovanni e spedito in Montenegro da dove tornò con una gamba amputata).
La storia, allora. Si parte da Lecco, dopo di che altre sezioni si aprono nel territorio: in Brianza, in Valsassina. Sono anni difficili e sono gli anni del primo dopoguerra, gli anni che portano al Fascismo. E’ stato scritto molto sul debito di Mussolini nei confronti dei reduci, del cosiddetto combattentismo, avendo la propaganda littoria puntato anche sullo scontento e lo spaesamento di chi, ritornato dal fronte, anziché gratitudine e riconoscenza per i sacrifici in trincea, si trova di fronte mille porte sbarrate. Il Fascismo si impadronisce così delle associazioni d’arma, per quanto non si può dire si sia poi dimostrato particolarmente generoso nei loro confronti.
Sostanzialmente, l’associazione non fa politica, anche se in certe occasioni le tendenze della dirigenza sono evidenti – nel secondo dopoguerra, il partito di riferimento è naturalmente quello dominante della Democrazia cristiana – mentre gli inevitabili legami con altre realtà combattentistiche creano un po’ di diffidenza in una società giovanile che ha già dimenticato e che va cambiando e modernizzandosi. Con il pacifismo e l’antimilitarismo – nota l’autore – che da sentimenti di nicchia diventano pratica di molti.
Tra le iniziative di spicco, anche la realizzazione di edifici residenziali, nei rioni di Castello e a Santo Stefano, e vere e proprie attività imprenditoriali con la gestione, finché possibile, di parcheggi pubblici, impegnando i mutilati che non sono riusciti a trovare altri sbocchi professionali.
Nel libro di Faccinetto, però, non c’è soltanto la fredda ricostruzione storica, ma anche il racconto delle storie personali, delle “avventure al fronte”, la testimonianza di chi ha visto la morte in faccia ed è scampato per un pelo, le vite rocambolesche e l’intreccio di vicende umane in tempo di pace: per esempio Angela Castelli, solerte impiegata dell’associazione che un giorno molla tutto, diventa suor Ritarosa e parte missionaria per il Mozambico - in piena guerra per conquistare l’indipendenza dal Portogallo - dove morirà in un banale incidente stradale.
Si parla ormai di una Casa della memoria, un luogo in cui custodire e tramandare il ricordo di quel che è stato e raccogliere frammenti di una lunga storia. Un’occasione – ci vien da pensare – per non nascondere le atrocità dei conflitti, abbandonare definitivamente la retorica e non voltare lo sguardo davanti alle vittime.
Dario Cercek