SCAFFALE LECCHESE/13: l'amata Pasturo nei versi e negli scatti di Antonia Pozzi
Di Antonia Pozzi e del suo legame con Pasturo sappiamo molto, ormai. Con il Comune valsassinese che – nell’anno centenario della nascita - aveva deciso di creare un proprio itinerario che va dalla casa di via Manzoni (una parte della quale visitabile su prenotazione) fino al cimitero, all’ombra dell’incombente rocca di Bajedo, toccando via via una serie di luoghi legati alla vita della poetessa milanese o che consentono di dare corpo e sostanza alle liriche scritte nell’arco di una brevissima vita, «una manciata di anni» per dirla con suor Onorina Dino, curatrice dell’Archivio dedicato alla poetessa e il cui lavoro, assieme alla biografia firmata da Alessanda Cenni e uscita nel 2002 (“In riva alla vita”, editore Rizzoli), ha di fatto portato alla riscoperta di una voce dimenticata.
Antonia Pozzi. Sotto al dimora di famiglia a Pasturo
Ne parlò, proprio in occasione di quella ricorrenza, il critico Fulvio Panzeri in un articolo sul quotidiano Avvenire: «Il centenario della nascita, che ricorre il 13 febbraio prossimo (era infatti nata il 13 febbraio 1912, a Milano), pone l’occasione per fare il punto sul "caso" Antonia Pozzi, vale a dire quello di una delle poche grandi voci poetiche femminili del primo Novecento italiano. Questa giovane donna frequenta gli ambienti culturalmente più vivi della Milano degli anni Venti e Trenta, tra le lezioni di Banfi e quelle di Dino Formaggio, è un’appassionata di montagna e di alpinismo, sfida le regole di una famiglia un po’ conservatrice come la sua, dominata dalla figura del padre, quando da giovane sui banchi del liceo si innamora, corrisposta, del professor Antonio Maria Cervi, eppure la sua figura è rimasta per molto tempo in attesa di un risarcimento, almeno per quanto riguarda la verità della sua ricerca umana, del suo sentire, del suo tormentato rapporto tra il suo mondo interiore e la realtà. Tutta la forza, ma anche il dolore e la ricerca di una dimensione metafisica che nutre sempre la verità delle sue “parole” è rimasta per anni legata ad un solo libro di poesie, “Parole”, pubblicato postumo dal padre, dopo il suicidio di Antonia, in una fredda giornata dell’inverno del 1938, nei prati vicino all’abbazia di Chiaravalle e in un’edizione che, pur essendo stata elogiata nientemeno che da Montale e accolta con grande favore dalla critica, in qualche modo "tradiva" il pensiero della poetessa, con tagli e omissioni, là dove il riferimento non era consono alla memoria che si voleva costruire per la figlia».Tra l’altro a proposito delle vicende editoriali di “Parole”, lo storico lecchese Marco Sampietro ha pubblicato un interessantissimo studio sul numero 1 del 2019 della rivista “Archivi di Lecco e della Provincia”, con la pubblicazione della prima edizione dell’opera, anno 1939, che si ammanta di giallo.
A Pasturo, la famiglia Pozzi aveva una bella casa di villeggiatura. Erano gli anni – prima della seconda guerra mondiale – in cui era il fondovalle valsassinese a essere preferito dai milanesi benestanti per le loro vacanze. Solo più tardi, quando prevalse la ricerca di luoghi più solatiii, si imposero Barzio, l’altopiano e altre località: arrivarono le funivie e orrendi condomini. Così, il villeggiante che voltava le spalle a Pasturo inconsapevolmente ne salvava l’anima.
A destra la sepoltura al cimitero di Pasturo. Sotto uno scorcio del camposanto con la rocca di Bajedo a far da sfondo
Sono parole che troviamo in “Antonia Pozzi e la montagna”, il libro di Marco Della Torre dedicato proprio al trasporto della poetessa per la montagna, intesa sia come ambiente di una vita millenaria e sofferta sia come palestra sportiva: la Valsassina, ma anche le Dolomiti o il Cervino; d’estate con gli scarponi, ma anche d’inverno con gli sci.
La parrocchiale di Pasturo e "suggestioni"
E’ nel 1929, a 17 anni, che impara a sciare – ci dice Della Torre – lo stesso anno in cui comincia a fotografare. Oggi tutti ormai fotografiamo; con il digitale e gli smartphone quasi ogni attimo del nostro quotidiano è ormai immortalato. Allora, naturalmente, era tutta un’altra storia. Figuratevi per una donna. Antonia Pozzi si distinse anche in questo: «Poesia e fotografia – ha scritto Ludovica Pellegatta - nella Pozzi rappresentano sin dagli inizi due voci di una stessa verità».C’è un vasto archivio, la stessa Pozzi appronta diversi album con le sue immagini preferite. L’anno scorso, per esempio, la casa editrice Mimesis ha pubblicato “1938, primo album”. Ma la produzione fotografica è stata anche oggetto di diverse mostre (a Milano, a cavallo tra 205 e 2016, “Sopra il cuore nudo” con catalogo Skira curato da Giovanna Calvenzi e appunto Ludovica Pellegatta, ma c’è anche un bel volume del 2018 “Nelle immagini l’anima” a cura ancora di Pellegatta e di Onorina Dino, edizioni Ancora).
Volumi dedicati alla poetessa
Molte, le fotografie di Pasturo: era un luogo amato. Ne parla in maniera struggente in una lettera dell’aprile 1935 (e che è stata riprodotta su una targa metallica al cancello della casa valsassinese): «Sempre, tutte le persone a cui ho voluto più bene, ho desiderato che venissero qui: perché vederle qui è come una consacrazione una benedizione dell’affetto che mi lega ancora». E ancora, nella stessa lettera: «Stamattina un uomo del paese, un vecchio, s’è fermato al cancello: ha voluto che portassi alla mamma un pezzo del ramo d’ulivo che aveva avuto in chiesa. Mi ha tanto commosso. Qui non c’è che gente taciturna, rozza: ma io penso che se un giorno resterò sola e verrò a vivere qui, il saluto di questi vecchi baffuti, di queste donne sdentate, il sorriso dei bambini sudici che mi vengono tra le gambe, mi consolerà molto…».Due anni prima, la poesia “Ritorno serale”: «Giungere qui – tu lo vedi -/dopo un qualunque dolore/è veramente/tornare al nido, trovare/le ginocchia materne,/appoggiarvi la fronte.»
Altri testi
Ed è, questa, la poesia scelta dall’allora sindaco pasturese, Guido Agostoni, per aprire “Poesie pasturesi”, libretto semplice ma di raffinata veste (pubblicato nel 2012 per i caratteri di Bellavite) e che può fungere da vademecum andando sulle orme di Antonia Pozzi per le vie del paese. Arrivando al cimitero, appunto, dove c’è la grande tomba della famiglia (con una statua di Gesù scolpita nel 1940 da Giannino Castiglioni): tre lapidi per madre e padre con la figlia in mezzo.Il libretto riprende quello pubblicato dallo stesso padre di Antonia, nel 1954 per «rispondere al desiderio di Pasturesi che continuamente ne fanno richiesta» compilando «un piccolo gruppo di liriche concepite e scritte a Pasturo e specialmente ispirate al suo paesaggio e alle sensazioni da esso derivate» per offrire «un ricordo vivo di lei ai sostenitori e ai benefattori dell’Asilo infantile, intitolato a suo nome».
Nell’edizione del nuovo secolo sono state aggiunte altre poesie e alcune delle fotografie che la stessa Pozzi scattò non solo in Valsassina.
Dello stesso libretto, è stata realizzata una seconda edizione nel 2014, sempre edito da Bellavite, con accluso il dvd del film “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” realizzato dai lecchesi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania (dvd che contiene anche foto dall’archivio Antonia Pozzi e della mostra “Vita breve” curata da Federico Wilhelm).
Per completare lo sguardo su Antonia Pozzi, c’è anche “Poesia che mi guardi” (2010, Luca Sassella editore, 650 pagine), «la più ampia e completa raccolta di poesie e altri scritti» a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino; anche in questo caso, è accluso un dvd con il film realizzato da Marina Spada nel 2009 (sempre intitolato “Poesia che mi guardi”)
Il dvd del film “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa”
In quanto alle poesie, assodato il valore letterario ormai riconosciuto, ognuno sceglierà naturalmente la propria, quella che maggiormente sentirà toccargli le corde del cuore. Noi, avremmo scelto “Pudore” del 1933: «Se qualcuna delle mie povere parole / ti piace / e tu me lo dici /sia pure solo con gli occhi /io mi spalanco / in un riso beato / ma tremo / come una mamma piccola giovane /che perfino arrossisce / se un passante le dice / che il suo bambino è bello».
Dario Cercek