SCAFFALE LECCHESE/7: Fiumelatte e ghiacciaia di Moncodeno, visita incantata con una guida letteraria
Riprende la nostra rubrica dedicata ai consigli per le letture, con filo conduttore il legame con il territorio lecchese. Una sorta di piccola biblioteca – con testi selezionati da Dario Cercek – di libri nuovi o datati che non dovrebbe mancare nelle case di chi ha a cuore questo nostro territorio.
Latte e ghiaccio (Edizioni del Faro, 125 pagine, 12 euro), quasi una guida colta ad accompagnarci alla scoperta di due dei luoghi più affascinanti del nostro territorio: il Fiumelatte (il fiume più corto d’Italia che scorre soltanto dalla primavera all’autunno) e la ghiacciaia di Moncodeno (la grotta della Grigna Settentrionale che noi lecchesi chiamiamo semplicemente Grignone e dalla quale per secoli si è ricavato ghiaccio: un tempo veniva portato anche a Milano).
Due fenomeni naturali che fin dall’antichità hanno fatto arrovellare gli studiosi e per i quali una spiegazione definitiva non c’è ancora. Per quanto è assodato siano in qualche modo collegati. Di fatto, quella di Moncodeno non è altro che una delle tante grotte di un sistema carsico che caratterizza l’area delle Grigne. E il Fiumelatte sgorga proprio da questo sistema sotterraneo. Fu anche ipotizzata l’esistenza di un grande lago sotto il Grignone che, ingrossandosi nel periodo del disgelo, scaricasse l’acqua in eccesso, originando appunto il Fiumelatte. La tradizione popolare lo dedica alla Madonna, facendone coincidere la comparsa con la ricorrenza dell’Annunciazione, il 25 marzo, e la scomparsa il giorno della Madonna del Rosario, il 7 ottobre.
Una prova del concatenarsi di grotte arriva da un esperimento effettuato nel 1992 quando una sostanza colorata venne immessa nell’abisso “W le donne” sulla cresta di Piancaformia (spartiacque tra Val d’Esino e Riviera lariana, circa duemila metri d’altitudine), per vederla uscire proprio nel Fiumelatte. Nel suo breve percorso a cielo aperto di soli 250 metri, il fiume supera un dislivello all’ingiù di un centinaio di metri, con una pendenza media di 36 gradi: è così tutto uno spumeggiare d’acque da farle appunto sembrare latte. Ne rimasero affascinati già Plinio e Leonardo da Vinci. Da parte sua, il genius loci contribuì al mito con una serie di leggende.
Una prova del concatenarsi di grotte arriva da un esperimento effettuato nel 1992 quando una sostanza colorata venne immessa nell’abisso “W le donne” sulla cresta di Piancaformia (spartiacque tra Val d’Esino e Riviera lariana, circa duemila metri d’altitudine), per vederla uscire proprio nel Fiumelatte. Nel suo breve percorso a cielo aperto di soli 250 metri, il fiume supera un dislivello all’ingiù di un centinaio di metri, con una pendenza media di 36 gradi: è così tutto uno spumeggiare d’acque da farle appunto sembrare latte. Ne rimasero affascinati già Plinio e Leonardo da Vinci. Da parte sua, il genius loci contribuì al mito con una serie di leggende.
Il Fiumelatte, dallo sgorgare alla foce
Proprio una di queste leggende costituisce la prima parte di questo “Latte e ghiaccio” con il quale l’autore, Stefano Motta (docente e scrittore, studioso manzoniano), ci accompagna a visitare questi due luoghi davvero incantati.
Per la topografia, la sorgente del Fiumelatte si trova a poca distanza dal cimitero di Varenna ed è raggiungibile con une breve passeggiata a piedi La ghiacciaia invece si spalanca nei pressi dell’Alpe Moncodeno (quasi a 1700 metri di quota) lungo il sentiero che dal Cainallo sale al Rifugio Bogani e quindi in Grignone.
La leggenda che Motta ci tramanda dovrebbe risalire addirittura al XIV secolo ma in questo caso viene collocata nel Seicento con una licenza letteraria che è un espediente per farla coincidere nel tempo con la seconda parte del libro, la più corposa, quella dedicata all’esplorazione della ghiacciaia, nel 1671, da parte di Nicola Stenone, scienziato danese considerato il fondatore delle geologia.
La leggenda racconta della drammatica avventura di tre giovani penetrati nella grotta da cui sgorga il Fiumelatte per conquistare il cuore della più bella del paese. Vicissitudini e finale non ve li raccontiamo, per non privarvi delle emozioni della lettura.
In quanto all’esplorazione di Stenone, Motta si rifà a documenti autentici e alle lettere che lo scienziato spediva al Gran Duca di Firenze per il quale prestava servizio. Affascinato da una “giazzera” trentina, finisce con l’arrivare al Moncodeno («Havvi altro pertugio» gli avevan detto) con una scombinata compagnia simigliante più al circolo Pickwick che a una spedizione scientifica. Ma nel contempo fornisce disegni e riflessioni del misterioso fenomeno del ghiaccio eterno sotto la montagna lariana: «Un passo prima avvampavo dal calore estivo, un passo dopo mi sentii avvolgere da un alito di ghiaccio. Non c’era vento, no. Era come se il freddo fosse lì, fermo, ad attendere me che scendevo rinculando. E il freddo mi avvolse, come qualcuno che ti getti d’improvviso una coperta pesante sulle spalle, come un abbraccio sospirato eppure sorprendente; il ghiaccio mi sibilò con la voce sottile all’orecchio: “Vieni”».
Motta ha poi deciso di avvolgere i due racconti una sorta di confezione manzoniana. Non soltanto per alcune sussurrate citazioni, come se a raccontare il paesaggio lariano ormai non si possa fare a meno delle parole di chi ne ha offerto un affresco immortale, quasi che quelle parole siano ormai diventate senso comune. Il Manzoni, dunque. I Promessi sposi, naturalmente. Ecco perché tutto si svolge nel Seicento. Non a caso la bellissima ragazza varennese si chiama Agnese e dà alla luce una figlia di nome Lucia, lascia Varenna per andare in filanda a Lecco (anche se l’Agnese manzoniana arrivava da Pasturo, ma vai a sapere le contingenze della vita….). E Stenone, per esplorare la grotta, si affida a tali Menico e Tonio (già, proprio loro), il primo fuggito da Lecco per sottrarsi alla furia di don Rodrigo e del Griso, il secondo sopravvissuto in malo modo alla peste che gli ha sterminato la famiglia; compagno di viaggio, tra l’altro, c’è anche l’anziano Manfredo Settala, collezionista milanese di mirabilia, ma soprattutto figlio del medico Lodovico Settala che il Manzoni cita nella Colonna Infame. Quasi un omaggio – quello di Motta – alla tradizione dei “seguaci manzoniani” di grande o piccolo calibro che nell’Ottocento, dopo l’uscita del Gran Romanzo, si cimentarono nello scriverne in qualche modo il seguito. Uno per tutti: il bellanese Antonio Balbiani che ci racconta la storia di Renzo e Lucia sposati e passati a vivere nella Bergamasca, fino ad arrivare agli ultimi giorni delle loro vite (ne pareremo prima o poi in questa rubrica).
A proposito di Manzoni, però, “Latte e ghiaccio” ci riserva anche un colpo di scena che non possiamo non anticiparvi: nella ghiacciaia di Moncodeno, Menico conserva una cassettina contenente alcune carte che regala a Stenone. Lo scienziato è più rapito dalle colonne di ghiaccio e, alle prese con quegli appunti disordinati, si augura soltanto che presto o tardi arrivino nelle mani di qualcuno in grado di dare loro forma e vita: non si tratta altro che dell’Historia. Motta non lo dice, ma è lampante: è quell’Historia secentesca nella quale Manzoni disse d’essersi imbattuto casualmente e che volle riscrivere in una lingua più moderna. Chissà se conscio dell’auspicio di Stenone…
Per la topografia, la sorgente del Fiumelatte si trova a poca distanza dal cimitero di Varenna ed è raggiungibile con une breve passeggiata a piedi La ghiacciaia invece si spalanca nei pressi dell’Alpe Moncodeno (quasi a 1700 metri di quota) lungo il sentiero che dal Cainallo sale al Rifugio Bogani e quindi in Grignone.
La leggenda che Motta ci tramanda dovrebbe risalire addirittura al XIV secolo ma in questo caso viene collocata nel Seicento con una licenza letteraria che è un espediente per farla coincidere nel tempo con la seconda parte del libro, la più corposa, quella dedicata all’esplorazione della ghiacciaia, nel 1671, da parte di Nicola Stenone, scienziato danese considerato il fondatore delle geologia.
La leggenda racconta della drammatica avventura di tre giovani penetrati nella grotta da cui sgorga il Fiumelatte per conquistare il cuore della più bella del paese. Vicissitudini e finale non ve li raccontiamo, per non privarvi delle emozioni della lettura.
In quanto all’esplorazione di Stenone, Motta si rifà a documenti autentici e alle lettere che lo scienziato spediva al Gran Duca di Firenze per il quale prestava servizio. Affascinato da una “giazzera” trentina, finisce con l’arrivare al Moncodeno («Havvi altro pertugio» gli avevan detto) con una scombinata compagnia simigliante più al circolo Pickwick che a una spedizione scientifica. Ma nel contempo fornisce disegni e riflessioni del misterioso fenomeno del ghiaccio eterno sotto la montagna lariana: «Un passo prima avvampavo dal calore estivo, un passo dopo mi sentii avvolgere da un alito di ghiaccio. Non c’era vento, no. Era come se il freddo fosse lì, fermo, ad attendere me che scendevo rinculando. E il freddo mi avvolse, come qualcuno che ti getti d’improvviso una coperta pesante sulle spalle, come un abbraccio sospirato eppure sorprendente; il ghiaccio mi sibilò con la voce sottile all’orecchio: “Vieni”».
Motta ha poi deciso di avvolgere i due racconti una sorta di confezione manzoniana. Non soltanto per alcune sussurrate citazioni, come se a raccontare il paesaggio lariano ormai non si possa fare a meno delle parole di chi ne ha offerto un affresco immortale, quasi che quelle parole siano ormai diventate senso comune. Il Manzoni, dunque. I Promessi sposi, naturalmente. Ecco perché tutto si svolge nel Seicento. Non a caso la bellissima ragazza varennese si chiama Agnese e dà alla luce una figlia di nome Lucia, lascia Varenna per andare in filanda a Lecco (anche se l’Agnese manzoniana arrivava da Pasturo, ma vai a sapere le contingenze della vita….). E Stenone, per esplorare la grotta, si affida a tali Menico e Tonio (già, proprio loro), il primo fuggito da Lecco per sottrarsi alla furia di don Rodrigo e del Griso, il secondo sopravvissuto in malo modo alla peste che gli ha sterminato la famiglia; compagno di viaggio, tra l’altro, c’è anche l’anziano Manfredo Settala, collezionista milanese di mirabilia, ma soprattutto figlio del medico Lodovico Settala che il Manzoni cita nella Colonna Infame. Quasi un omaggio – quello di Motta – alla tradizione dei “seguaci manzoniani” di grande o piccolo calibro che nell’Ottocento, dopo l’uscita del Gran Romanzo, si cimentarono nello scriverne in qualche modo il seguito. Uno per tutti: il bellanese Antonio Balbiani che ci racconta la storia di Renzo e Lucia sposati e passati a vivere nella Bergamasca, fino ad arrivare agli ultimi giorni delle loro vite (ne pareremo prima o poi in questa rubrica).
A proposito di Manzoni, però, “Latte e ghiaccio” ci riserva anche un colpo di scena che non possiamo non anticiparvi: nella ghiacciaia di Moncodeno, Menico conserva una cassettina contenente alcune carte che regala a Stenone. Lo scienziato è più rapito dalle colonne di ghiaccio e, alle prese con quegli appunti disordinati, si augura soltanto che presto o tardi arrivino nelle mani di qualcuno in grado di dare loro forma e vita: non si tratta altro che dell’Historia. Motta non lo dice, ma è lampante: è quell’Historia secentesca nella quale Manzoni disse d’essersi imbattuto casualmente e che volle riscrivere in una lingua più moderna. Chissà se conscio dell’auspicio di Stenone…
Dario Cercek