Lecco: Bario pubblica 'Come batteva il tamburo'. «Gli anni Settanta non furono solamente violenza e droga»
Per una fortuita coincidenza, mentre la Torre Viscontea si appresta a ospitare la mostra fotografica “L’altra faccia della luna” dedicata ai festival rock degli anni Settanta (legati alla rivista alternativa “Re Nudo” e il primo dei quali si svolse nel 1971 a Montalbano, proprio sopra la città di Lecco), un libro racconta “dal vivo” gli anni Settanta nella nostra città, prendendo spunto dall’occupazione nel 1977 della ex caserma Sirtori (oggi questura) da parte di un variegato movimento giovanile che richiedeva l’apertura di un centro sociale, di uno spazio che fosse punto di riferimento per i giovani (e che di fatto venne poi realizzato in corso Martiri diventando la culla di quello che poi sarebbe stato il Crams). Da un certo punto di vista, quelle due date – il 1971 e il 1977 – rappresentano gli albori e il declino di un movimento dalle diverse sfaccettature che si sviluppò in Italia e coinvolse profondamente anche Lecco.
Il libro di cui parliamo è “Come batteva il tamburo. Piccola città, non avrai il mio scalpo” e l’autore è l’artista Federico Bario che di quel periodo lecchese fu tra i protagonisti. Edito da Bruno Osimo («un autore/traduttore che si autopubblica o pubblica gli amici») si può acquistare sulle piattaforme on line.
Non si tratta di una ricostruzione storica («Non era questo il mio intento - dice Bario. Non sono uno storico») bensì di una testimonianza resa mescolando senza un ordine apparente ricordi personali, racconti di alcuni momenti, le discussioni dell’epoca, le dispute ideologiche anche accese, i drammi individuali, le riflessioni di oggi, le considerazioni politiche e infine lunghi elenchi di libri, dischi, canzoni, poesie e film a dare il quadro del contesto culturale dell’epoca. Quasi un catalogo.
«Ho scritto questo libro – spiega Bario – perché mi sono detto che non avrei più voluto leggere questa storia da qualche altra parte, volevo scriverla io. Ed è una storia di città di provincia e inizio a raccontarla spiegando come, crescendo, sia arrivato a maturare le scelte di allora».
Il cuore della narrazione è comunque “Come batteva il tamburo”, il testo dedicato appunto all’occupazione della caserma Sirtori che Bario aveva già pubblicato nel 1989 per i “Quaderni del Circolo Rosselli”, associazione culturale dalla breve vita.
«Allora non era ancora caduto il Muro di Berlino. Era ancora un altro mondo. Oggi, ho ripreso quel lavoro, l’ho allargato, sono tornato sui temi della violenza e della droga: quegli anni sono spesso raccontati come mefitici, ma c’era anche altro. Coloro che sono sopravvissuti alla sconfitta generale, l’ala creativa di quel movimento, ha comunque lasciato un segno nella vita culturale della città: penso a “Teatro Invito”, al gruppo “Pittura Uno”, al Crams…. E accanto al racconto, ho realizzato alcune “mappe” perché volevo dare un’idea di cosa si leggesse e si ascoltasse in quel periodo, il perché si acquistasse un disco anziché un altro: perché magari c’era la copertina di un certo artista. Era un periodo di grande collaborazione fra tutte le arti. Ho voluto quasi realizzare una sorta di vademecum. E mi piacerebbe che lo leggessero i più i giovani, i ventenni e i trentenni di oggi affinché possano avere un’idea più precisa e ragionata di quel periodo. Una carrellata su quello che era il pane quotidiano di chi ha vissuto quelle esperienze. E che aveva messo in moto un movimento. Quello che ci mancava, che non riuscimmo a fare a Lecco, fu una radio libera, come successo invece altrove. Era la rivoluzione del momento. Noi invece si continuavamo ancora con i ciclostili».
Certo, a tratti, il libro appare come un “memoire” venato dal rimpianto: una generazione che voleva cambiare il mondo e che si è invece ritrovata con un pugno di mosche. E naturalmente la giovinezza perduta.
«Rimpianto forse no – risponde l’autore - Certo, molti ormai si sono inseriti e sono anche diventati ricchi, altri sono caduti nella droga che ha portato via molti amici. E poi c’è stata la grande repressione dopo il 1978, dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. E ognuno ha preso strade individuali. Per quanto mi riguarda ciò che mi ha cambiato l’esistenza – a parte che sono diventato nonno da pochi mesi – è stato l’incontro con Fausta Finzi, il raccogliere la sua testimonianza sulla Shoah nel libro “Varcare la soglia”».
“Come batteva il tamburo” è dedicato alla figlia Giulia, giornalista, quasi a voler appunto trasmettere il suo messaggio sugli anni Settanta del Novecento alle generazioni successive, a quella della figlia ma anche a quelle più giovani. Ci sarà una risposta e quale sarà?
«Mia figlia – risponde Bario – il libro non lo ha ancora letto, anche se gliene ho parlato. Da parte sua è molto attenta a prendere posizioni. Ma debbo dire che nei giovani ho trovato una grande rispondenza, quando ha proposto loro attraverso alcuni reading i temi di “Come batteva il tamburo”. A quelle iniziative, i giovani c’erano. E paradossalmente mancavano i “vecchi”. In loro, anzi, ho trovato reticenza. Molti non volevano più parlare di quegli anni. Inizialmente pensavo di realizzare qualcosa su internet, poi ho voluto puntare su un libro perché è ancora un oggetto molto importante. Spero che in qualche modo se ne parli, che venga anche contestato. E spero che arrivi ai più giovani. Ho visto che c’è interesse, certe cose non si sapevano. E siamo arrivati fino a qui, tutti consumatori assoluti, chiusi in casa, non ci si vede nemmeno più, ormai ci si incontra solo ai funerali…»
Appunto: “Piccola città, non avrai il mio scalpo” è il sottotitolo. Ma, a guardarsi indietro e attorno, l’impressione è invece che lo scalpo, la piccola città e le vicissitudini della vita, se lo siano preso senza sconti.
«Ne sono stati scalpati parecchi – la riflessione finale di Federico Bario - Ma il mio non l’hanno avuto di certo. Io e altre persone, in fondo, non abbiamo mollato, abbiamo continuato con maturità diverse a fare le stesse cose, pur con lavori differenti. Magari abbiamo pagato prezzi alti, ma siamo ancora qui. Se vai avanti a fare le cose che sai fare allora aggiungi un pezzetto, aggiungi confronti, scambi di idee. Ora chiudo questa cosa e continuo con altro, come peraltro ho continuato in questi anni, dipingendo. E’ come un filo rosso anche se non so più se sia ancora rosso, un filo legato all’impegno culturale».
Il volume sarà presentato l’11 dicembre alle 18 a Palazzo delle paure su iniziative dalla biblioteca civica “Pozzoli”, con un dialogo tra lo stesso Federico Bario e Giovanna Rotondo Stuart.

La copertina del libro
Il libro di cui parliamo è “Come batteva il tamburo. Piccola città, non avrai il mio scalpo” e l’autore è l’artista Federico Bario che di quel periodo lecchese fu tra i protagonisti. Edito da Bruno Osimo («un autore/traduttore che si autopubblica o pubblica gli amici») si può acquistare sulle piattaforme on line.
Non si tratta di una ricostruzione storica («Non era questo il mio intento - dice Bario. Non sono uno storico») bensì di una testimonianza resa mescolando senza un ordine apparente ricordi personali, racconti di alcuni momenti, le discussioni dell’epoca, le dispute ideologiche anche accese, i drammi individuali, le riflessioni di oggi, le considerazioni politiche e infine lunghi elenchi di libri, dischi, canzoni, poesie e film a dare il quadro del contesto culturale dell’epoca. Quasi un catalogo.
«Ho scritto questo libro – spiega Bario – perché mi sono detto che non avrei più voluto leggere questa storia da qualche altra parte, volevo scriverla io. Ed è una storia di città di provincia e inizio a raccontarla spiegando come, crescendo, sia arrivato a maturare le scelte di allora».

Bario in corteo negli anni Settanta
Il cuore della narrazione è comunque “Come batteva il tamburo”, il testo dedicato appunto all’occupazione della caserma Sirtori che Bario aveva già pubblicato nel 1989 per i “Quaderni del Circolo Rosselli”, associazione culturale dalla breve vita.
«Allora non era ancora caduto il Muro di Berlino. Era ancora un altro mondo. Oggi, ho ripreso quel lavoro, l’ho allargato, sono tornato sui temi della violenza e della droga: quegli anni sono spesso raccontati come mefitici, ma c’era anche altro. Coloro che sono sopravvissuti alla sconfitta generale, l’ala creativa di quel movimento, ha comunque lasciato un segno nella vita culturale della città: penso a “Teatro Invito”, al gruppo “Pittura Uno”, al Crams…. E accanto al racconto, ho realizzato alcune “mappe” perché volevo dare un’idea di cosa si leggesse e si ascoltasse in quel periodo, il perché si acquistasse un disco anziché un altro: perché magari c’era la copertina di un certo artista. Era un periodo di grande collaborazione fra tutte le arti. Ho voluto quasi realizzare una sorta di vademecum. E mi piacerebbe che lo leggessero i più i giovani, i ventenni e i trentenni di oggi affinché possano avere un’idea più precisa e ragionata di quel periodo. Una carrellata su quello che era il pane quotidiano di chi ha vissuto quelle esperienze. E che aveva messo in moto un movimento. Quello che ci mancava, che non riuscimmo a fare a Lecco, fu una radio libera, come successo invece altrove. Era la rivoluzione del momento. Noi invece si continuavamo ancora con i ciclostili».

Federico Bario
Certo, a tratti, il libro appare come un “memoire” venato dal rimpianto: una generazione che voleva cambiare il mondo e che si è invece ritrovata con un pugno di mosche. E naturalmente la giovinezza perduta.
«Rimpianto forse no – risponde l’autore - Certo, molti ormai si sono inseriti e sono anche diventati ricchi, altri sono caduti nella droga che ha portato via molti amici. E poi c’è stata la grande repressione dopo il 1978, dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. E ognuno ha preso strade individuali. Per quanto mi riguarda ciò che mi ha cambiato l’esistenza – a parte che sono diventato nonno da pochi mesi – è stato l’incontro con Fausta Finzi, il raccogliere la sua testimonianza sulla Shoah nel libro “Varcare la soglia”».
“Come batteva il tamburo” è dedicato alla figlia Giulia, giornalista, quasi a voler appunto trasmettere il suo messaggio sugli anni Settanta del Novecento alle generazioni successive, a quella della figlia ma anche a quelle più giovani. Ci sarà una risposta e quale sarà?
«Mia figlia – risponde Bario – il libro non lo ha ancora letto, anche se gliene ho parlato. Da parte sua è molto attenta a prendere posizioni. Ma debbo dire che nei giovani ho trovato una grande rispondenza, quando ha proposto loro attraverso alcuni reading i temi di “Come batteva il tamburo”. A quelle iniziative, i giovani c’erano. E paradossalmente mancavano i “vecchi”. In loro, anzi, ho trovato reticenza. Molti non volevano più parlare di quegli anni. Inizialmente pensavo di realizzare qualcosa su internet, poi ho voluto puntare su un libro perché è ancora un oggetto molto importante. Spero che in qualche modo se ne parli, che venga anche contestato. E spero che arrivi ai più giovani. Ho visto che c’è interesse, certe cose non si sapevano. E siamo arrivati fino a qui, tutti consumatori assoluti, chiusi in casa, non ci si vede nemmeno più, ormai ci si incontra solo ai funerali…»

L'ex caserma Sirtori occupata
Appunto: “Piccola città, non avrai il mio scalpo” è il sottotitolo. Ma, a guardarsi indietro e attorno, l’impressione è invece che lo scalpo, la piccola città e le vicissitudini della vita, se lo siano preso senza sconti.
«Ne sono stati scalpati parecchi – la riflessione finale di Federico Bario - Ma il mio non l’hanno avuto di certo. Io e altre persone, in fondo, non abbiamo mollato, abbiamo continuato con maturità diverse a fare le stesse cose, pur con lavori differenti. Magari abbiamo pagato prezzi alti, ma siamo ancora qui. Se vai avanti a fare le cose che sai fare allora aggiungi un pezzetto, aggiungi confronti, scambi di idee. Ora chiudo questa cosa e continuo con altro, come peraltro ho continuato in questi anni, dipingendo. E’ come un filo rosso anche se non so più se sia ancora rosso, un filo legato all’impegno culturale».

D.C.














