Lecco: il disallineamento tra il sistema formativo e quello economico in numeri

L’economia lecchese fatica soprattutto perché non trova personale qualificato. Il tema, certo non nuovo, è stato al centro di una ricerca promossa dall’amministrazione provinciale e rivolta soprattutto alla manodopera giovanile, al numero di diplomati che ogni anno escono dalle scuole lecchesi e che non riescono a coprire la domanda di personale delle imprese. Lo chiamano disallineamento, vale a dire il divario tra il sistema formativo e quello economico. Che, in verità, è problema sul tappeto da molto tempo, è stato fatto notare. E ciò significa che qualcosa non funziona nelle politiche di orientamento scolastico e professionale adottate fino a oggi. E comunque proprio la ricerca della Provincia può essere un punto di partenza per riprendere ragionamenti a largo raggio, ma anche rivedere il sistema «di scuole superiori del nostro territorio per rispondere alle esigenze delle nostre tante piccole aziende»: parole della stessa presidente provinciale Alessandra Hofmann.

Alessandra Hofmann

I risultati dell’indagine commissionata alla società “Odm Consulting” sono stati presentati in un incontro alla Sala Don Ticozzi a una platea composta dai rappresentanti delle varie associazioni di categoria, degli enti economici e dai dirigenti scolastici del territorio, a cominciare dal neo “provveditore” Adamo Castelnuovo.

Adamo Castelnuovo

Introdotta dal consigliere provinciale delegato all’istruzione Carlo Malugani, a illustrare i “numeri” è stata Rossella Riccò, responsabile dell’area studi e ricerche di “Odm Consulting” che ha cominciato dai dati generali e cioé dal 69%  che è il tasso di occupazione totale in provincia (in calo dal 72% di due anni fa). E’ al 19% poi la disoccupazione giovanile (in aumento di oltre tre punti percentuale rispetto al 2020), con il 9% di “net”, i giovani che hanno chiuso col mondo: non studiano, non lavorano né cercano un’occupazione.

Carlo Malugani

Complessivamente, nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni, il 62% delle persone studia, il 24% ha un’occupazione il 5% la sta cercando. In quanto ai contratti di assunzione registrati nel 2021, quasi il 53% è costituito da rapporti di lavoro a tempo determinato e solo il 21,8% a tempo indeterminato, mentre quasi il 20% è rappresentato dalla cosiddetta somministrazione. Oltre il 70% dei posti di lavori rientra dunque nel cosiddetto precariato, «dovuto alla continua richiesta di flessibilizzazione da parte delle imprese». Ciò per quanto riguarda la forza lavoro.
Sul fronte datoriale, invece, le imprese denunciano «difficoltà abbastanza elevate nel reperimento di figure adeguate alle proprie esigenze con un dato (quasi 39%) superiore a quelli regionale e nazionale (di poco superiori al 33%). Difficoltà  «determinate soprattutto dalla scarsità di candidati e in misura meno rilevante dalla loro inadeguatezza in termini di livello formativo e di competenze possedute. Va però anche rilevato che il 66% delle imprese indica come requisito necessario il possesso di una precedente esperienza lavorativa nella specifica professione o almeno nel settore dell’impresa. Requisito, questo, destinato a tagliar fuori i neodiplomati al primo impiego. Suggerendo riflessioni “altre” e cioè la scomparsa della formazione giovanile all’interno delle aziende, l’apprendistato di un tempo, puntando su figure professionali già pronte. Non è un caso che le assunzioni effettuate dalle imprese riguardano soprattutto la fascia di età tra i 30 e i 44 anni (37%), mentre per i giovani fino ai 29 anni ci si attesta sul 30% per il quale le opportunità di lavoro si legano al settore turistico (39%) e del commercio (37%).

Rossella Riccò

Ma l’indagine della Provincia non volge lo sguardo alle distorsioni del mercato del lavoro, bensì alla necessità di rivedere il sistema formativo. Sottolineando come ancora la maggioranza degli studenti scelga il percorso liceale (50,5% di diplomati) rispetto agli istituti tecnici (35%) e professionali (14,5%).
Entrando nel dettaglio, lo studio ha preso in esame sette settori economici (agroalimentare, commercio, costruzioni, elettrico-elettronico, metalmeccanico, servizi per la sanità, assistenza sociale, turismo e ristorazione) e dedicato anche attenzione alle professioni informatiche che oggi riguardano tutti i settori, settori che rappresentano il 67% dell’occupazione.
L’economia lecchese poggia su 33mila imprese per 107mila posti di lavoro complessivi. Se è il variegato mondo del commercio a far registrare il maggior numero di imprese (il 21,6% del totale dando lavoro al 16% degli occupati), il “cuore” continua a essere il metalmeccanico, settore nel quale è occupato il 25% dei lavoratori lecchesi, nonostante le imprese siano poco più dell’8%. Meno di quelle attive nel settore delle costruzioni (oltre il 13%) che occupano però l’8% della manodopera. A parte turismo e ristorazione (il 7,6% delle imprese con l’8% degli occupati), tutti gli altri settori sono al di sotto del 5% sia per numero di imprese che di occupati.

In quanto al divario tra domanda e offerta, l’indagine ha appunto messo a raffronto il numero dei diplomati negli istituti tecnici (corso di studi di 5 anni) e professionali (con corsi dai 3 ai 5 anni) con le previsioni del fabbisogno di personale raccolte tra le imprese dalla Camera di commercio. In tutti i casi, le aziende denunciano sensibilissime percentuali di posti di lavoro vacanti: nell’agroalimentare, per esempio, manca il 33% di diplomati e addirittura l’84% di qualificati: il metalmeccanico è al 50% in entrambi i casi, le costruzioni al 56% e 46%, il commercio al 26% e 40%, l’elettrico  al 70% e 51%, la sanità al 37% e 50%. Infine, turismo e ristorazione è quello che forse sta meglio (30% e 35%), nonostante sia il settore che nei mesi scorsi ha fatto maggiormente parlare di sé.
In cifre assolute, complessivamente le aziende dovrebbero coprire 14.013 posti. Di questi, 3.450 posti, sono per lavoratori senza esperienza, ma le scuole tecniche e professionali ne forniscono solo 1.597, senza contare che una parte di questi sceglie di andare a lavorare altrove o magari di continuare gli studi, come ha fatto notare il presidente di Confindustria Plinio Agostoni.

Il solo settore metalmeccanico fa registrare un fabbisogno di 4.050 lavoratori diplomati o qualificati dei quali 1.317 alla prima esperienza e dalle scuole escono a fine corso solo 281 giovani tra diplomati e qualificati.
Infine, le imprese giovanili sono quantificate tra il 3 e il 9%, con dati diversi da settore a settore (se l’agroalimentare è al 9%, l’elettrico è addirittura allo 0,4%).
Secondo Luisa Zuccoli, la preside dell’istituto Badoni – scuola per periti industriali tra le più selettive e quotate – il tessuto di base del sistema scolastico lecchese a sostegno dell’impresa c’è e funziona, il problema sta nell’orientamento scolastico, nella necessità di convincere i ragazzi ma soprattutto le famiglie che, grazie alle innovazioni tecnologiche, il lavoro in fabbrica non è più quello di un tempo. Troppo spesso, però le famiglie continuano a guardare al liceo come sbocco ideale per i propri figli, a dispetto magari dei consigli dei docenti. Stesso discorso sulle differenze di genere: da trent’anni a questa parte non è infatti cambiato nulla se il Badoni continua ad avere un numero esiguo di studentesse e il “Bertacchi” (il liceo che un tempo era l’istituto magistrale) continua ad avere una popolazione quasi esclusivamente femminile. E se il direttore della Confartigianato Daniele Riva ha sostenuto la necessità di continuare a insistere su progetti di alternanza scuola-lavoro nonostante le molte critiche dell’ultimo anno, il consigliere Malugani ipotizza un lavoro di orientamento scolastico che possa partire addirittura dalla scuola primaria.

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D.C.
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