Per capire il 4 Novembre
Si sono appena concluse le commemorazioni in occasione del 4 Novembre, Festa della Vittoria divenuta poi Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Un’occasione per riflettere, oggi più che mai, sull’assurdità e le atrocità di ogni conflitto.
La “Grande Guerra” rappresentò - con l’impiego di nuove armi moderne (carri armati, mitragliatrici, aviazione …) e i suoi dieci milioni di vittime (civili esclusi) - la prima carneficina di massa della storia contemporanea e diede inizio a un lungo periodo di tensioni nonché instabilità economico-politiche che si concluse solo nel 1945. Molti storici definiscono infatti il periodo 1914-1945 come la “Guerra dei Trent’anni del XX secolo”.
Nell’agosto 1914 gli Stati europei si lasciarono trascinare, senza che la diplomazia facesse nulla per evitarlo, in una guerra che, iniziata come conflitto “regionale” (interessi dell’Austria-Ungheria in contrapposizione al nazionalismo serbo), assunse poi un carattere europeo ed infine, con l’intervento degli USA nel 1917, mondiale.
Il meccanismo delle Alleanze (Triplice Intesa da una parte, Triplice Alleanza dall’altra) si rivelò fatale.
Ma l’Italia aveva allora la possibilità di “restare fuori”, come in effetti fece dichiarando inizialmente la propria neutralità. La Triplice Alleanza, che vedeva dal 1882 l’Italia a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, era infatti un patto difensivo che impegnava all’aiuto reciproco nel caso uno Stato membro venisse aggredito. Ma dopo l’attentato di Sarajevo le cose non stavano proprio così, visto che fu l’Austria-Ungheria a dichiarare guerra alla Serbia. Ragion per cui l’Italia non si sentiva vincolata agli impegni assunti e rimase neutrale. Anche se ben presto iniziò a fiutare la possibilità, entrando in guerra, di ampliare i propri confini acquisendo nuovi territori. Si trattava essenzialmente dei cosiddetti “territori irredenti”, Trento e Trieste.
L’atteggiamento di rifiuto da parte dell’Austria-Ungheria di fronte alle richieste italiane fece sì che Roma iniziasse ad aprire trattative con le Potenze dell’Intesa. Ne scaturì un patto segreto, firmato a Londra il 26 aprile 1915, con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa. E questo in cambio di considerevoli promesse territoriali: quello che l’Intesa prometteva non erano infatti solo i territori irredenti, ma anche la costa dalmata con una serie di isole e il confine del Brennero: l’Italia avrebbe cioè ottenuto il Sudtirolo, un territorio a stragrande maggioranza germanofono che nulla aveva a che fare con le rivendicazioni irredentiste di Cesare Battisti e compagni.
Nel frattempo l’Austria-Ungheria, capendo quanto fosse importante non perdere l’alleanza con l’Italia, aveva fatto un po’ retromarcia sulla questione relativa a possibili cessioni territoriali e sarebbe stata disposta a cedere il Trentino e parti del Friuli. E forse Vienna avrebbe anche finito per accettare l’idea di trasformare Trieste in una sorta di “libero porto internazionale” e avallare l’apertura di una università italiana in città.
Alla fine l’Italia si schierò con le Potenze che le avrebbero garantito maggiori vantaggi. Si trattò quindi di una decisione presa in base a un calcolo politico ben preciso e non, come dichiarò allora e per molti decenni seguenti la retorica nazionalpatriottica, per liberare i territori italiani ancora occupati dall’Austria-Ungheria.
Se l’Italia Sabauda avesse ridimensionato le proprie aspirazioni, si sarebbero potuti evitare 650.000 caduti, immolati sull’altare della Patria. Soldati italiani che hanno versato il loro sangue non per la pace e la libertà del Paese, ma per un’idea distorta di Patria. Per una Patria alla quale stava più a cuore l’ampliamento territoriale che il bene dei cittadini.
Certo è che allora la grandezza di uno stato si misurava anche e soprattutto in termini di chilometri quadrati. E l’Italia post-risorgimentale mirava ad acquisire maggior peso e riconoscimento politico sul palcoscenico internazionale.
La “Grande Guerra” rappresentò - con l’impiego di nuove armi moderne (carri armati, mitragliatrici, aviazione …) e i suoi dieci milioni di vittime (civili esclusi) - la prima carneficina di massa della storia contemporanea e diede inizio a un lungo periodo di tensioni nonché instabilità economico-politiche che si concluse solo nel 1945. Molti storici definiscono infatti il periodo 1914-1945 come la “Guerra dei Trent’anni del XX secolo”.
Nell’agosto 1914 gli Stati europei si lasciarono trascinare, senza che la diplomazia facesse nulla per evitarlo, in una guerra che, iniziata come conflitto “regionale” (interessi dell’Austria-Ungheria in contrapposizione al nazionalismo serbo), assunse poi un carattere europeo ed infine, con l’intervento degli USA nel 1917, mondiale.
Il meccanismo delle Alleanze (Triplice Intesa da una parte, Triplice Alleanza dall’altra) si rivelò fatale.
Ma l’Italia aveva allora la possibilità di “restare fuori”, come in effetti fece dichiarando inizialmente la propria neutralità. La Triplice Alleanza, che vedeva dal 1882 l’Italia a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, era infatti un patto difensivo che impegnava all’aiuto reciproco nel caso uno Stato membro venisse aggredito. Ma dopo l’attentato di Sarajevo le cose non stavano proprio così, visto che fu l’Austria-Ungheria a dichiarare guerra alla Serbia. Ragion per cui l’Italia non si sentiva vincolata agli impegni assunti e rimase neutrale. Anche se ben presto iniziò a fiutare la possibilità, entrando in guerra, di ampliare i propri confini acquisendo nuovi territori. Si trattava essenzialmente dei cosiddetti “territori irredenti”, Trento e Trieste.
L’atteggiamento di rifiuto da parte dell’Austria-Ungheria di fronte alle richieste italiane fece sì che Roma iniziasse ad aprire trattative con le Potenze dell’Intesa. Ne scaturì un patto segreto, firmato a Londra il 26 aprile 1915, con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa. E questo in cambio di considerevoli promesse territoriali: quello che l’Intesa prometteva non erano infatti solo i territori irredenti, ma anche la costa dalmata con una serie di isole e il confine del Brennero: l’Italia avrebbe cioè ottenuto il Sudtirolo, un territorio a stragrande maggioranza germanofono che nulla aveva a che fare con le rivendicazioni irredentiste di Cesare Battisti e compagni.
Nel frattempo l’Austria-Ungheria, capendo quanto fosse importante non perdere l’alleanza con l’Italia, aveva fatto un po’ retromarcia sulla questione relativa a possibili cessioni territoriali e sarebbe stata disposta a cedere il Trentino e parti del Friuli. E forse Vienna avrebbe anche finito per accettare l’idea di trasformare Trieste in una sorta di “libero porto internazionale” e avallare l’apertura di una università italiana in città.
Alla fine l’Italia si schierò con le Potenze che le avrebbero garantito maggiori vantaggi. Si trattò quindi di una decisione presa in base a un calcolo politico ben preciso e non, come dichiarò allora e per molti decenni seguenti la retorica nazionalpatriottica, per liberare i territori italiani ancora occupati dall’Austria-Ungheria.
Se l’Italia Sabauda avesse ridimensionato le proprie aspirazioni, si sarebbero potuti evitare 650.000 caduti, immolati sull’altare della Patria. Soldati italiani che hanno versato il loro sangue non per la pace e la libertà del Paese, ma per un’idea distorta di Patria. Per una Patria alla quale stava più a cuore l’ampliamento territoriale che il bene dei cittadini.
Certo è che allora la grandezza di uno stato si misurava anche e soprattutto in termini di chilometri quadrati. E l’Italia post-risorgimentale mirava ad acquisire maggior peso e riconoscimento politico sul palcoscenico internazionale.
Giorgio Motta, ex docente di Lingua e Civiltà Tedesca - Liceo Manzoni Lecco