Pensaci tu, Angela!
L'annessione delle quattro province ucraine Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson da parte della Russia segna un punto di non ritorno nel conflitto tra Putin e l'Occidente. Le immagini della cerimonia al Cremlino e dei festeggiamenti sulla Piazza Rossa sono a dir poco sconvolgenti: da una parte la nomenklatura riunita che scandisce a gran voce "Rossija, Rossija", dall'altra Putin che pronuncia un discorso infarcito di retorica nazional-patriottica che avrebbe suscitato l'invidia di Hitler: "Siamo più forti perché siamo uniti. La verità è con noi e nella verità sta la forza. La vittoria sarà nostra!" A seguire una serie di accuse all'Occidente e alla NATO.
Ebbene, queste immagini non mi hanno semplicemente scosso, mi hanno messo paura. Paura che l'impiego di armi nucleari non sia poi così improbabile in questo conflitto e che le parole di Putin ("Questo non è un bluff!") siano molto di più di una semplice minaccia.
Quale è stata la reazione dell'Occidente? Zelenski ha firmato in diretta la domanda per l'ammissione in tempi brevi dell' Ucraina alla NATO; il ministro degli Esteri americano Blinken ribadisce che le quattro province sono e rimarranno territorio ucraino; la EU fa sapere che continuerà a fornire all'Ucraina beni umanitari e ... armi. Oltre che annunciare ulteriori sanzioni contro la Russia.
Stiamo vivendo la crisi più grave dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale in cui sembra che le parti in causa facciano a gara a non sentire la ragione altrui. E la sola idea di provare a lanciare un'ipotesi di trattativa viene subito tacciata di Putinismo.
Certo è difficile accettare un interlocutore dalle mani insanguinate, che manda in prima linea giovani e non più giovani senza esperienza militare, che afferma che i cittadini delle province annesse sono a tutti gli effetti cittadini russi e che la Russia difenderà "con tutti i mezzi a sua disposizione" i nuovi territori. Ma proprio per questo occorre ora più che mai uscire da una logica di contrapposizione e cercare una strategia d'uscita. Prima che sia troppo tardi.
Nel suo discorso in occasione dell'inaugurazione della Fondazione Helmut Kohl a Berlino l'ex-cancelliera Angela Merkel ha invitato a prendere sul serio le parole di Putin aggiungendo come un tale atteggiamento non sia per niente segno di debolezza o acquietamento, bensì dimostrazione di intelligenza politica. Ha poi proseguito dicendo che Helmut Kohl avrebbe fatto sì tutto il possibile per proteggere l'Ucraina e ripristinare la sua sovranità e integrità, al contempo non avrebbe però perso di vista il "giorno dopo".
Ed è proprio questa visione del "giorno dopo" (a tal proposito mi viene in mente un film degli anni Ottanta dal titolo "The day after" in cui si descrivono le conseguenze di una guerra nucleare) che deve indurci a osare l'impossibile: far tacere le armi, sedersi a un tavolo e parlare. Ma per far questo c'è bisogno di un mediatore, di un personaggio al di fuori della mischia, che disponga dei canali giusti. E qui potrebbe forse entrare in gioco la Merkel: lei, ormai da un anno "pensionata politica", rimane infatti il capo di stato che più di tutti ha incontrato e meglio di tutti conosce Putin, che da ex-cittadina della DDR meglio saprebbe relazionarsi con chi disprezza la democrazia. E che parla russo. Perché non basta alzare il dito e ammonire, occorre pensare, appunto, al "giorno dopo".
Attualmente la Merkel non gode però in Germania di una grande simpatia: le si rimprovera di aver per anni perseguito una politica energetica per nulla lungimirante che ha portato il Paese alla dipendenza dalla Russia (vedi gasdotti Nordstream 1 e 2). E ancora: la Merkel è stata tra i protagonisti del Protocollo di Minsk del 2015, rivelatosi poi, ahimè, un fallimento. Per questo pochi sono dell'idea che proprio lei possa rientrare in gioco nell'attuale situazione. E forse sarebbe lei stessa a non accettare questo ingrato compito.
Eppure qualcuno deve pur tentare di fermare questa maledetta guerra. Prima che sia troppo tardi.
Ebbene, queste immagini non mi hanno semplicemente scosso, mi hanno messo paura. Paura che l'impiego di armi nucleari non sia poi così improbabile in questo conflitto e che le parole di Putin ("Questo non è un bluff!") siano molto di più di una semplice minaccia.
Quale è stata la reazione dell'Occidente? Zelenski ha firmato in diretta la domanda per l'ammissione in tempi brevi dell' Ucraina alla NATO; il ministro degli Esteri americano Blinken ribadisce che le quattro province sono e rimarranno territorio ucraino; la EU fa sapere che continuerà a fornire all'Ucraina beni umanitari e ... armi. Oltre che annunciare ulteriori sanzioni contro la Russia.
Stiamo vivendo la crisi più grave dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale in cui sembra che le parti in causa facciano a gara a non sentire la ragione altrui. E la sola idea di provare a lanciare un'ipotesi di trattativa viene subito tacciata di Putinismo.
Certo è difficile accettare un interlocutore dalle mani insanguinate, che manda in prima linea giovani e non più giovani senza esperienza militare, che afferma che i cittadini delle province annesse sono a tutti gli effetti cittadini russi e che la Russia difenderà "con tutti i mezzi a sua disposizione" i nuovi territori. Ma proprio per questo occorre ora più che mai uscire da una logica di contrapposizione e cercare una strategia d'uscita. Prima che sia troppo tardi.
Nel suo discorso in occasione dell'inaugurazione della Fondazione Helmut Kohl a Berlino l'ex-cancelliera Angela Merkel ha invitato a prendere sul serio le parole di Putin aggiungendo come un tale atteggiamento non sia per niente segno di debolezza o acquietamento, bensì dimostrazione di intelligenza politica. Ha poi proseguito dicendo che Helmut Kohl avrebbe fatto sì tutto il possibile per proteggere l'Ucraina e ripristinare la sua sovranità e integrità, al contempo non avrebbe però perso di vista il "giorno dopo".
Ed è proprio questa visione del "giorno dopo" (a tal proposito mi viene in mente un film degli anni Ottanta dal titolo "The day after" in cui si descrivono le conseguenze di una guerra nucleare) che deve indurci a osare l'impossibile: far tacere le armi, sedersi a un tavolo e parlare. Ma per far questo c'è bisogno di un mediatore, di un personaggio al di fuori della mischia, che disponga dei canali giusti. E qui potrebbe forse entrare in gioco la Merkel: lei, ormai da un anno "pensionata politica", rimane infatti il capo di stato che più di tutti ha incontrato e meglio di tutti conosce Putin, che da ex-cittadina della DDR meglio saprebbe relazionarsi con chi disprezza la democrazia. E che parla russo. Perché non basta alzare il dito e ammonire, occorre pensare, appunto, al "giorno dopo".
Attualmente la Merkel non gode però in Germania di una grande simpatia: le si rimprovera di aver per anni perseguito una politica energetica per nulla lungimirante che ha portato il Paese alla dipendenza dalla Russia (vedi gasdotti Nordstream 1 e 2). E ancora: la Merkel è stata tra i protagonisti del Protocollo di Minsk del 2015, rivelatosi poi, ahimè, un fallimento. Per questo pochi sono dell'idea che proprio lei possa rientrare in gioco nell'attuale situazione. E forse sarebbe lei stessa a non accettare questo ingrato compito.
Eppure qualcuno deve pur tentare di fermare questa maledetta guerra. Prima che sia troppo tardi.
Giorgio Motta, ex-docente di Lingua e Cultura Tedesca del liceo Manzoni di Lecco