Lecco: il campione olimpico Alex Schwazer racconta con Sandro Donati la battaglia contro il doping
Una storia umana e sportiva, fatta di vittorie e di sconfitte che si è intrecciata con quella della battaglia contro il doping: è la vicenda del marciatore campione olimpico Alex Schwazer e dell’allenatore simbolo di questa lotta Sandro Donati, che giovedì sera sono stati ospiti al Teatro Invito per un incontro promosso dalla società benefit Sdba Srl Sta Sb e da Fisiorun.it, patrocinato dal Comune di Lecco.
Guidato dalle domande di Samuele Biffi, è stato Donati a ripercorrere le tappe che lo hanno portato ad essere da un lato l’emblema della denuncia delle pratiche di doping nello sport e dell’altro bersaglio delle istituzioni che non le volevano troppo scardinare. L’allenatore ha così raccontato di come tutto è cominciato dalla sua intervista al settimanale L’Espresso del 1987, nella quale aveva spiegato che il doping era molto diffuso nello sport ad alto livello anche in Italia, del suo rifiuto a ritrattare quanto svelato, dell’insabbiamento del libro scritto un paio di anni dopo ("Campioni senza valore") per una piccola casa editrice fiorentina.
E oggi, dopo oltre tre decenni da quel J’ai accuse, Donati definisce “difficile da spiegare” lo stato dell’arte: “Non ci sono i buoni da un lato, ovvero le realtà che fanno i controlli, e i cattivi dall’altro, cioè gli atleti dopati. C’è tutto un contesto fatto di allenatori, medici, fisioterapisti, dirigenti, c’è l’istituzione che gestisce atleti di alto livello, ci sono le federazioni che vivono sui risultati degli sportivi di élite, e sono le stesse che dovrebbero promuovere le verifiche su di loro. In tutto il mondo esistono 25 laboratori antidoping, il personale e i macchinari costano milioni, eppure dai loro controlli emerge solo lo 0,3 per cento di positività: o il doping non esiste oppure l’antidoping è un sistema di facciata che ha il solo scopo di non fare danni. C’è un enorme conflitto di interessi”.
L’allenatore ha infatti spiegato che le sostanze "vietate" sono essenzialmente costituite da anabolizzanti, stimolatori della produzione di globuli rossi, emodoping e stimolanti del sistema nervoso. “Non è vero che il doping è sempre più avanti dell’antidoping, che ha invece mezzi e fior fior di ricercatori, quello che è vero è che il sistema è volutamente calmierato da una serie di maglie larghe”. Donati le ha elencate: un atleta può rifiutare fino a due controlli senza dare giustificazioni, se invece ha una "scusa" anche di più; le verifiche possono essere effettuate solo all’interno di una finestra di un’ora prestabilita all’interno della giornata, in questo modo le micro-dosi non vengono rilevate; c’è poi la “reperibilità”, ovvero la necessità di comunicare il luogo dove ci si trova, che può essere usata in maniera abile.
E secondo la ricostruzione di Donati sono le istituzioni sportive a reggere questo sistema: “Durante la Guerra fredda la Russia aveva organizzato politicamente il sistema di conquista delle medaglie e gli atleti non avevano scelta di fronte all’assunzione di sostanze. Ma gli americani non accettavano di rimanere indietro e hanno cominciato, seguiti dai Paesi europei, a utilizzare l’ormone della crescita, l’emodoping e così via. Quando l’ex Unione sovietica è crollata i Paesi occidentali hanno fatto a gara per mettere sotto contratto medici e allenatori dell’Est”.
Le prime vittime di questo sistema sono gli atleti: i calciatori hanno otto anni di vita in meno della media, i ciclisti ancora di più; la SLA è diffusa tra i giocatori di pallone otto o nove volte in più, così come le malattie cardiache e i tumori. “Eppure i calciatori non vengono mai trovati positivi - ha notato Donati -. L’ex PM napoletano Luigi Bobbio ha scritto un libro nel quale ha raccontato che la procura tramite l’Asl e il Sert sottoponeva Maradona a controlli quasi settimanalmente, e puntualmente veniva trovano positivo alla cocaina. Perché l’antidoping non lo rilevava?”. La legge italiana in materia aveva indicato la direzione giusta: controlli affidati a organismi terzi con laboratori gestiti dal Ministero della Salute. “Ma la lobby degli sportivi ha ostacolato tutto, e infatti ancora adesso le verifiche sono effettuate dal sistema sportivo” ha chiarito l’allenatore, spiegando anche qual è la sua proposta: “Le squalifiche pluriennali che colpiscono e distruggono gli atleti non hanno nessun senso, è un accanimento inutile. Se vogliamo davvero sconfiggere il sistema del doping bisogna creare un vero passaporto biologico e svolgere dei controlli periodici. Ogni volta che un valore diventa anomalo, bisognerebbe poi fermare l’atleta fino a quando le analisi tornano nei limiti. In questo modo si controlla il doping, si tutela la salute degli atleti e si monitorano i club”.
È stato questo approccio onesto e non ideologico che ha fatto incontrare Sandro Donati e Alex Schwazer, in un momento molto difficile della vita del campione altoatesino, che nel 2012 era già un atleta affermato: aveva vinto un bronzo ai mondiali di Helsinki nel 2005, bissato nel 2007 a Osaka, e poi l’oro alle Olimpiadi di Pechino del 2008, stabilendo anche un nuovo record. Ma erano seguiti anni complessi, segnati dall’abbandono della gara ai mondiali del 2009, dal nono posto nel 2011 a Taegu e culminati il 6 agosto 2012 con l’annuncio della positività all'eritropoietina e l’esclusione dell’atleta dalla squadra olimpica. Un controllo stimolato proprio da Donati: “Avevo mandato una mail alla Wada segnalando il comportamento di un atleta professionista che prima dei Giochi se ne andava un mese da solo, senza staff, senza accompagnatori in Germania. Dopo l’esito positivo sono stato nominato consulente nell’ambito dell’indagine penale che era stata avviata, ho vagliato migliaia di documenti, letto centinaia di e-mail, ho fatto rifare gli esami dei campioni dei Giochi di Pechino. Non trovai nulla, iniziai a capire che non avevo davanti un atleta dopato, ma in difficoltà, vittima di una forte depressione e lasciato a se stesso: a lui serviva un allenatore e un’assistenza”.
Qualche anno dopo è stato Schwazer ad andare a cercare Donati: “Io ho il coraggio di tornare e di espormi, lei ce l'ha quello di sporcarsi le mani con me?”. L’allenatore ha accettato la sfida e ne è nata una collaborazione inizialmente vincente. Ma nel giugno del 2016, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Rio, viene comunicata una nuova positività di un campione raccolto il primo gennaio di quell’anno, alla quale segue a stretto giro la sospensione dell’atleta. A nulla in quel momento è valsa la denuncia di manipolazione sporta contro ignoti. In agosto, proprio in Brasile, viene respinto il ricorso di Schwazer e arriva una squalifica di otto anni. Le indagini successive rivelano un'alta concentrazione di Dna all'interno dei campioni di urina che sarebbero indice di una manipolazione. Una lettura avallata dalla procura di Bolzano, che nel 2020 chiede l'archiviazione del procedimento penale per non aver commesso il fatto. Una conclusione contestata dalla Wada e dalla giustizia sportiva che ha respinto la richiesta di sospensione della squalifica.
Come l’atleta ha vissuto tutto questo lo ha raccontato nel suo intervento, collegato in video da casa sua: “Se potessi tornare indietro, nel 2009 avrei fatto altro, sarei stato lontano da tutto, mi sarei preso una pausa dalla brutta situazione che stavo vivendo. Il 2008 era stato un anno difficile: ero ossessionato dalla qualità che dovevo raggiungere, mi allenavo tantissimo, troppo, sentivo la pressione su di me, ero circondato da persone interessate solo alle medaglie. Nel 2012 stavo davvero male, mi sono rifugiato nel doping e ho perso tantissimo: me ne sono reso conto solo dopo, quando è uscita la notizia. Da un lato mi sentivo sollevato, dall’altro ho avvertito un grosso rammarico, ma è cominciato un percorso che mi ha portato a farmi delle domande e a prendere consapevolezza. Quando sei vuoto, sei in burn out, non è una questione mentale ma fisica: uno fa fatica ad alzarsi dal letto e fare delle cose normali. Sono guarito solo grazie ad uno psichiatra e alle medicine che mi ha dato”. Dalla sua esperienza l’atleta altoatesino ha imparato che la questione è complessa ed è quindi necessario ampliare il ragionamento: “Ci sono cose che non vanno bene per gli sportivi e non vanno bene per nessuno. Pensiamo alle attrezzature sempre più sofisticate o ai disturbi alimentari che sono diffusissimi e fanno una grossa differenza nella prestazione. C’è il doping, certo, ma se un atleta vuole imbrogliare ha tante possibilità di farlo, senza nessun controllo o regola”.
Dalle parole con cui Alex Schwazer ha salutato il numeroso pubblico in sala, non si può che apprendere una grande lezione di umiltà e di onestà: “Io sono crollato non una volta, non dieci, di più, ma sono uno sportivo e ho sempre avuto voglia di rialzarmi e andare avanti. L’estate del 2016 è stata molto difficile: dovevo allenarmi senza sapere se potevo o no andare alle Olimpiadi e dovevo difendermi da una cosa che non avevo fatto. Oggi mi ritengo un uomo sereno e fortunato: ho una moglie stupenda, due bambini e ho costruito su di loro e sul mio lavoro la mia quotidianità, cercando di guardare sempre al futuro, nonostante una squalifica di otto anni che non è solo dalle gare, ma anche da tutto l’ambiente sportivo di alto livello”.
M.V.