Perché la Chiesa tace?

Tra le citazioni più usate e più falsamente attribuite, oltre a quell'«Elementare, Watson», che Sherlock Holmes non ha mai pronunciato in nessuna pagina di Conan Doyle, c'è anche la famosissima "Il fine giustifica i mezzi", che non si ritrova in nessuna pagina del "Principe" di Machiavelli.

I passi che giustificano chi sintetizza con questo slogan il pensiero di Machiavelli si trovano nel capitolo diciottesimo del trattatello, laddove si dice che "nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli", perché bisogna che il principe "abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato."

Che a livello ideale postula il fine di una condotta orientata al bene, ma concede che la sua applicazione contingente debba adattarsi ai mezzi concreti.

Mi stupisce sempre che Machiavelli collochi questo assunto proprio nel capitolo dedicato alla religione, intitolato "Quomodo fides a principibus sit servanda", che vale più o meno "In che modo i principi debbano mantenere la fede", ovverosia laddove spiega come usare la fede come strumento di conquista e gestione del potere, "instrumentum regni" dicevano i classici.

Poiché non ho parole mie che siano migliori delle sue, le riporto qui per esteso. Mi permetto solo di evidenziare qualche passaggio, perché mi pare strilli di fronte agli spettacoli di questi nostri giorni:  

"Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne' nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo.
[...]
Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi.
[...]
Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
[...]

A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de' presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissimo; e l'una e l'altra, quando e' l'avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato."  

L'11 novembre 1550 Girolamo Muzio inviava al commissario generale dell'Inquisizione Teofilo Scullica la nota di una serie di nomi da far confluire nel costituendo Index librorum prohibitorum, l'Indice dei libri proibiti. Spiccava il nome di Machiavelli. «Tengo opinione fermissima» - scrisse - «che essi siano del tutto infedeli, ma perciocché lo scoprirsi interamente non sarebbe cosa sicura [...] col mostrarsi pur religiosi vogliono gettare a terra la religione».

Io attendo ancora nel 2022 una parola chiara e netta da quella stessa Chiesa che mise all'Indice un capolavoro della letteratura italiana e che è tiepidissima oggi nello stigmatizzare il comportamento di chi "col mostrarsi pur religioso, vuole gettare a terra la religione".

Le marce della pace e i digiuni non servono, perché nel mondo non è se non volgo, e trovo volgare (o machiavellico) che la Chiesa non si ribelli a un uso così strumentale della religione cristiana.
Stefano Motta
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